Leggendario e maledetto

comandante Schouten
Diario di bordo del Comandante Schouten

Ha provocato un numero imprecisabile di naufragi e di vittime ma è sempre lì che, imperterrito quanto affascinante, continua a sfidare il coraggio di chi osa avventurarsi nelle sue acque.

Che il commercio, o più prosaicamente la sete di guadagno, sia stato l’inarrestabile motore pulsante di tutte le grandi scoperte geografiche del pianeta, per quanto irriverente nei confronti dei più nobili sentimenti dello spirito umano, è una realtà un po’ misera ma inconfutabile. O forse una grande fortuna – dipende dai punti di vista – e se guardiamo al passato non è certo un caso che il XVI secolo sia stato definito come quello delle grandi scoperte geografiche.

Se parliamo della Compagnia Britannica delle Indie Orientali, ad esempio, parliamo di una società inglese che, nata alla fine del 1600, conquistò rapidamente il monopolio del commercio con l’Oriente più o meno estremo, grazie alla potenza della sua flotta, composta da oltre 300 navi, e alla capacità dei suoi comandanti.

Per altro impegnati non solo a conquistare nuovi territori commerciali, ma anche a sradicare quella pirateria che affliggeva le rotte più battute.

Batavia
Una perfetta replica della Batavia, nave della VOC che ebbe avventurose vicende e fu poi ricostruita con estrema fedeltà di tecniche e materiali. Oggi è visitabile presso il Batavialand Museum a Lelystad.

La Compagnia Olandese delle Indie Orientali

Quasi contemporaneamente – per la cronaca il 20 marzo del 1602 – un’altra potente nazione mise insieme un gruppo di società mercantili per sfruttare in aperta competizione le grandi risorse che si trovavano oltre oceano: nacque così la Vereenigde Oost-Indische Compagnie, più semplicemente VOC, ovvero la Compagnia Olandese delle Indie Orientali.

E se la competizione sulle rotte dell’Indiano, dopo la scoperta del passaggio di Capo di Buona Speranza era già ampiamente dichiarata, la possibilità di una rotta alternativa che passasse dall’Atlantico, abbreviando il tragitto, restava tutta da approfondire.

Un ritratto del comandante Willem Cornelisz Schouten

Non che mancasse un collegamento con quell’oceano che Magellano aveva ribattezzato Pacifico, tuttavia quel passaggio dello Stretto che oggi porta il suo nome era lungo, lento e pericoloso, oltre ad essere soggetto a pesanti pedaggi da parte di chi lo governava: proprio la Compagnia Olandese delle Indie Orientali.

Capo Horn
La cartina mostra la posizione geografica di Capo Horn

L’origine del nome

Furono così che, per esigenze puramente commerciali, il 29 gennaio del 1616 due navi – battenti comunque bandiera olandese – fecero vela verso l’estremo Sud del continente americano, dopo essere partite dal porto di Hoorn: l’Eendracht e l’Hoorn, finanziate dal mercante olandese Isaac Le Maire.

L’Hoorn fu distrutto da un incendio durante una fase di carenaggio lungo le coste della Patagonia e il suo equipaggio fu imbarcato sull’Eendracht, che proseguì verso Sud fino a incontrare condizioni meteo che lo misero in seria difficoltà, come scrisse poi il suo comandante, Willem Cornelisz Schouten: “Noi andiamo a Sud e abbiamo in faccia un forte vento da Sud-Ovest.

A bordo arrivano onde enormi. È un inferno d’acqua. Sulla costa non lontana vediamo montagne coperte di neve. Abbiamo però la certezza di aver raggiunto l’estremo Sud del continente e di aver aperto una nuova via verso l’Oriente. Abbiamo deciso di battezzare questo capo come la città da cui siamo partiti: Kaab Hoorn”.

Le navi della Compagnia Olandese delle Indie Orientali furono le prime a tentare di aprire una nuova via commerciale attraverso Capo Horn. Nei tempi della marineria velica il passaggio restò comunque una sfida sempre rischiosa e impegnativa.

Un incrocio maledetto

Il passaggio di Cape Horn, come fu presto iscritto nella storia della marineria benché oggi si chiami ufficialmente Cabo de Hornos, si rivelò una zona ricca di insidie, troppe per i velieri dell’epoca.

Per il commercio oceanico non fu dunque la svolta che si sperava. In molti tentarono comunque di doppiarlo e, fra i personaggi del passato, forse il più famoso fu il capitano William Bligh, comandante del Bounty, che nel 1788 tentò per ben quattro volte senza riuscirvi a causa delle burrasche, scegliendo infine la tradizionale rotta attraverso Capo di Buona Speranza.

Tuttavia non fu questa la causa del famoso ammutinamento, che avvenne invece nel 1789 in pieno Oceano Pacifico a causa dell’eccessiva disciplina imposta da Bligh.

Ma agli amanti delle grandi imprese non si può sottacere proprio quella che vide protagonisti lo stesso William Bligh e i 18 uomini che insieme a lui furono abbandonati su una lancia aperta di soli sette metri a 3618 miglia da Timor, l’isola più vicina.

A bordo solo pochi viveri da razionare, una bussola, un orologio da tasca, un quadrante, un sestante e le tavole di navigazione: quanto bastò – grazie alla straordinaria perizia di Bligh – per raggiungere l’isola in 47 giorni. Perdonate la divagazione ma mi pare ne valesse la pena.

Capo Horn
La cartina mostra il fortissimo dislivello batimetrico che caratterizza i fondali di Capo Horn

Gli interessi commerciali

Capo Horn non entrò nei progetti commerciali delle grandi potenze fino agli inizi del XIX secolo, tuttavia fece una vera e propria strage: per quanto approssimativi, i calcoli parlano di circa 10.000 uomini e 800 navi, almeno fra quelli conosciuti.

Ma perché questo estremo Sud del continente americano è così pericoloso? In realtà Capo Horn non sarebbe neanche la punta estrema del continente, innanzi tutto perché si parla comunque di un’isola, ma poi perché a una sessantina di miglia a Sud-Ovest si trova il piccolo arcipelago di Diego Ramirez, politicamente appartenente al Cile.

Capo Horn resta tuttavia il più rapido giro di boa per passare dall’Atlantico al Pacifico, costeggiando o quasi il continente. Sempre che lui – il Capo – sia d’accordo, il che accade raramente e il motivo è squisitamente strutturale.

Trovandosi a 55° 59′ di Latitudine Sud e affacciandosi sullo Stretto di Drake (440 miglia di mare aperto che separano il continente americano da quello antartico), Capo Horn è il crocevia di violente perturbazioni che confluiscono senza la minima interferenza: siamo in pratica al confine fra i “Quaranta Ruggenti” e i “Cinquanta Urlanti”, definizioni ben note a chi naviga.

Capo Horn
L’immagine ricorda il drammatico ammutinamento del Bounty, con l’abbandono in pieno oceano del comandante Bligh.

Le perturbazioni

Perturbazioni, per altro, che seguendo lo spostamento dei sistemi meteorologici ed essendo quindi prevalentemente ma non esclusivamente provenienti da Ovest, si scontrano e si incrociano nelle acque del capo creando un vero e proprio inferno che solo gli albatros sembrano sfidare con indifferenza.

Anche perché – va aggiunto – il fondale risale vorticosamente da oltre 4000 metri a poco più di cento, con un effetto tutt’altro che trascurabile sulle correnti. Il tutto a formare onde che in fase di depressione, sotto un vento gelido, possono superare facilmente i dieci metri.

Senza dimenticare che, data la vicinanza della banchisa polare, non si può escludere la presenza di iceberg alla deriva. Difficile in altre parole, trovare una situazione più scoraggiante.

Nel 2005 Capo Horn è stato dichiarato dall’UNESCO Patrimonio Naturale dell’Umanità.

Vespucci
L’immagine cartografica testimonia il passaggio di Capo Horn da parte di nave Vespucci, avvenuto il 5 aprile dello scorso anno, la cui bellezza e complessità d’attrezzatura è mostrata nelle successive immagini.

Una sfida di grande vela

Molte le navi e le vite umane perse a Capo Horn, anche nei tempi in cui le tecniche di costruzione e di navigazione si erano già evolute. Fra le storie riportate dalle cronache, ad esempio, non è possibile tralasciare l’avventura del “Susanna” che, nel 1905, tentò per ben 99 giorni di passare il capo e quando alla fine ci riuscì arrivò nel porto di Caleta Buena con solo otto uomini validi e il resto dell’equipaggio chiuso sottocoperta e malridotto tra fratture e malattie varie. Il 1938 fu un altro anno da ricordare.

Susanna
Un’immagine del Susanna, che nel 1905 dopo quattro tentativi riuscì a doppiare il Capo in modo drammatico.

Da una parte perché vide la scomparsa dell’Admiral Karpfanger, un possente quattro alberi che finì probabilmente contro un iceberg, o almeno così si presume dato che della nave furono ritrovati solo un portello e alcune travi; dall’altra perché, nello stesso anno, il quattro alberi Primewall incontrò condizioni ideali e stabilì un record, per l’epoca, completando il giro dell’isola in 5 giorni e 14 ore.

Prima del definitivo avvento del vapore e, a seguire, quello del motore, l’ultimo veliero a doppiare felicemente Capo Horn fu ilPamir”, uno spettacolare “windjammer” con quattro alberi e 3800 metri quadrati di superficie velica, costruito in Germania ma battente bandiera finlandese.

Utilizzato per il trasporto dei nitrati dalle ricche miniere cilene, e allo stesso tempo come nave scuola, questo veliero ebbe lunga vita anche dopo aver abbandonato le rotte di Capo Horn. Tuttavia, il 21 settembre 1957, 600 miglia a Sud-Ovest delle Azzorre, incappò nell’uragano Carrie, che non ne ebbe pietà causando dapprima uno spostamento del carico che rese ingovernabile la nave, poi un successivo affondamento in soli venti minuti: solo 6 delle 86 persone a bordo riuscirono a mettersi in salvo su una scialuppa e furono poi recuperate da un mercantile giunto in soccorso.

Il “Coronet”, uno spettacolare schooner di 130 piedi, fu il primo yacht privato che doppiò Capo Horn, e che in seguito
fece per tre volte il giro del mondo.

Le barche da diporto

Lo sviluppo del diporto nautico portò anche molti avventurosi navigatori a sfidare le insidie del capo. Il primo yacht americano a doppiarlo da Est ed Ovest, cioè contro i venti prevalenti,  fu il Coronet, uno splendido schooner statunitense lungo 130 piedi la cui impresa ebbe larga eco.

Una barca prestigiosa che, in seguito, circumnavigò il globo per ben tre volte e oggi, dopo adeguato restauro, riposa felicemente nel Mystic Seaport Museum dell’omonima città, nel Connecticut.

Con lo sviluppo della nautica aumentarono anche gli ardimentosi sfidanti dell’Horn, ma non a tutti andò bene. Miles e Beryl Smeeton, ad esempio, tentarono per due volte di doppiarlo e per altrettante volte, nel 1956 e nel 1957, il loro Tzu Hang si ribaltò perdendo l’albero e costringendoli a un salvataggio di fortuna.

Testardi, avventurosi e multitasking com’erano – ricordiamo, tanto per dire, che avevano già scalato diverse cime himalayane con Tenzing Norgay, lo sherpa che con Edmund Hillary aveva scalato per primo l’Everest – ci riprovarono dieci anni dopo e questa volta fu Capo Horn a cedere. Un altro che ce la fece, con qualche paura ma senza drammi, fu Wilfried Erdmann, un navigatore tedesco che passò il capo nel corso della sua terza navigazione non-stop, da Est a Ovest, intorno al mondo.

Poco alla volta, grazie anche all’evoluzione tecnica di barche e attrezzature, doppiare il capo divenne meno impresa…ma neanche una passeggiata. Come dimostra la scomparsa di Ole Hoop, uno sloop tedesco riportato per l’ultima volta il 13 dicembre del 2002 prossimo al passaggio: di Klaus Nölter e Johanna Michaelis, i due armatori-navigatori ben noti nell’entourage velistico tedesco, non fu trovata traccia e in loro memoria, nel 2014, fu eretta sul capo una piccola cappella.

Amerigo Vespucci
Manovre a bordo della Amerigo Vespucci

Spettacolare Vespucci

In tempi ben più recenti il passaggio più spettacolare di Capo Horn è stato quello della nave scuola della nostra Marina Militare, l’Amerigo Vespucci, che ha doppiato il capo da Ovest a Est il 5 aprile dello scorso anno. I 93 anni di navigazione sulle spalle non hanno impedito a questo imponente tre alberi di 101 metri, bompresso incluso, con una superficie velica di 2.635 metri quadrati, di compiere il passaggio nonostante un meteo tutt’altro che favorevole.

Un’indimenticabile avventura soprattutto per il Capitano di Vascello Giuseppe Lai, 125° comandante del Vespucci, che alle ore 06,35 ora italiana ha annunciato all’equipaggio l’avvenuto passaggio del capo traguardandone l’immagine sul radar, sotto raffiche di 25 nodi: “Latitudine 56° 53’ 7’ Sud, 67° 16’ 4” Ovest.

Abbiamo passato Capo Horn, sono orgoglioso di voi!”. Egli scriverà poi nel dispaccio inviato al comando di Stato Maggiore: “Entusiasmo equipaggio incontenibile”. Per gli amanti del dettaglio precisiamo che il Vespucci ha passato Horn con a riva il trevo di trinchetto, il parrocchetto fisso e volante, la gabbia fissa e volante, a una velocità di circa 10 nodi.

Chissà se ora al comandante Lai verrà consentito di appendere al lobo sinistro l’orecchino d’oro che contraddistingue tutti i “Cap Hornier”, ovvero i marinai che hanno passato Capo in favore di vento, ovvero tenendolo a sinistra (chi lo ha passato in senso inverso può portare l’orecchino al lobo destro).

Passato Capo Horn, il Vespucci e il suo equipaggio di 240 marinai più un centinaio di allievi ha poi proseguito il suo giro del mondo destinato a promuovere l’immagine dell’Italia.

E che sia una bella immagine non ci sono dubbi. Basterebbe citare l’incontro in Mediterraneo fra il nostro veliero e la portaerei americana USS Indipendence, avvenuto nel 1962: “Chi siete?” lampeggiò con il segnale luminoso il gigante statunitense quando si trovò di fronte la nostra nave. “Siamo la nave scuola Amerigo Vespucci, della Marina Militare Italiana”. Breve pausa. “Siete la più bella nave del mondo”, sentenziò il comandante della portaerei.

Al momento in cui scriviamo, l’Amerigo Vespucci si trova nel porto di Abu Dhabi.

Giancarlo Pedote
Il nostro Giancarlo Pedote al passaggio del Capo nell’attuale Vendée Globe

Riservato ai giganti

Capo Horn è un nome e una garanzia: quella di mettere alla prova tutte le capacità nautiche e fisiche di chiunque osi sfidarlo. Per questo non poteva sfuggire all’obiettivo delle regate più estreme che da anni lo hanno inserito nel loro percorso. Se volete farvi venire i brividi, provate a seguire il diario di bordo di chi ha passato il capo in condizioni negative – ovvero nella maggior parte dei casi – e tornerete ad apprezzare la rilassante bellezza del veleggiare da Gaeta a Ponza con una mite brezza di traverso.

Al momento attuale, le imbarcazioni impegnate in una regata che include Capo Horn sono quelle della Vendée Globe, una gara senza scalo in solitario intorno al mondo che si svolge ogni quattro anni e ha un podio praticamente monopolizzato dai velisti francesi.

Fra i 40 partecipanti all’edizione 2024/2025, che includono diverse esponenti del mondo femminile e molte barche dotate di foil, c’è anche il nostro Giancarlo Pedote su Prysmian, barca rivista e corretta ma comunque datata 2015, che si sta comportando più che onorevolmente nonostante alcune difficoltà tecniche e meteorologiche vissute poco prima del passaggio di Capo Horn, che Pedote ha tuttavia doppiato lo scorso 6 gennaio.

Da notare che tutte le imbarcazioni partecipanti alla Vendée Globe appartengono alla classe IMOCA (International Monohull Open Class Association), ovvero monoscafi che condividono la stessa lunghezza di 18,28 metri, un pescaggio di 4,50 m e che in condizioni favorevoli possono toccare punte di 40 nodi.

Capo Horn
Il suggestivo monumento che con l’immagine di un albatros ricorda le vittime di Capo Horn.

Il guardiano del faro

Capo Horn resta ancor oggi uno dei posti più leggendari. Un mito, per qualcuno, una meta per altri, una semplice curiosità per chi con il mare ha poco a che fare. Resta comunque l’avamposto del continente America puntato verso l’Antartide, così come resta anche il cimitero di chi, nel tempo, ha deciso di sfidarlo. A memoria di tutto questo resta un suggestivo monumento che imprigiona il profilo di un albatros in 190 tonnellate di ferro, mentre un faro controlla costantemente il passaggio delle navi che incrociano al largo.

E poiché un faro non può non avere il suo guardiano, in questo caso si tratta di un militare dell’Armada de Chile, che a turni di un anno vive isolato dal resto del mondo, anche se, volendo, può portarsi dietro la famiglia.

I suoi principali compiti sono quelli di assicurare il funzionamento del faro, controllare il traffico delle navi e lanciare eventuali allarmi meteo.

Dispone ovviamente dei più moderni sistemi di comunicazione e ogni due settimane – se il meteo lo concede – riceve viveri freschi da una nave crociera che fa tappa nei pressi. Se vuole sgranchirsi le gambe, può contare sui 160 gradini che portano dal faro al piccolo molo d’imbarco.

Sebbene questo signore riceva ogni tanto un bel po’ di turisti (più di 4.000 in estate, portati dalle crociere che battono le coste della Patagonia), è più normale che a fargli regolarmente compagnia siano gli albatros: quelli che volano e, soprattutto, quello intagliato nella scultura di José Balcells Eyquem che domina la punta sud dell’isola. Raggiungibile dopo una faticosa scalata di 163 gradini, questo monumento, con le sue ali protese al vento, ricorda quanti persero la vita in quelle acque con le parole di una poesia di Sonia Vial, incisa su una pietra: “Soy el albatros que te espera en el final del mundo…”

“Sono l’albatros che ti aspetta alla fine del mondo, sono l’anima dimenticata dei marinai morti che attraversarono il Capo Horn da tutti i mari della Terra. Ma loro non sono morti tra le onde furiose, oggi volano sulle mie ali verso l’eternità, nell’ultima crepa dei venti antartici”.

Il libro di preghiere di Capitan Repetto
Il libro di preghiere di Capitan Repetto

Il prezzo del coraggio

Il 15 ottobre 1878, il brigantino a palo Pellegra Madre procedeva verso Ovest, lungo il 58° parallelo, circa 130 miglia a Sud di Capo Horn. Al suo comando era il capitano camogliese Giacomo Filippo Repetto, che cinque anni prima, al culmine di una campagna oceanica durata tre anni, aveva portato la bandiera italiana per la prima volta alle isole Hawaii.

Nel corso della mattinata, il vento da Nord-Ovest con raffiche fino a 60 nodi aveva costretto a un’ulteriore riduzione della tela: in pratica, erano parzialmente aperte soltanto le vele basse degli alberi maestro e di trinchetto, mentre tutte le altre, comprese le auriche dell’albero di mezzana, erano raccolte e ben serrate sui pennoni fin dal giorno prima.

Verso le due del pomeriggio, la densa foschia che fin dall’alba aveva quasi nascosto la sommità delle onde – alcune alte più di 15 metri – si era quasi dissolta, scoprendo per quasi tutto il giro di orizzonte un impressionante scenario di schiuma bianca nella quale gli iceberg più piccoli, tutt’altro che rari in quel periodo dell’anno, si sarebbero potuti confondere. Ben cosciente del pericolo, capitan Repetto scrutava l’acqua fin dove poteva puntando il suo binocolo.

A un certo punto, guardando verso le acque del Pacifico, gli sembrò che stessero formandosi vere e proprie muraglie d’acqua che presto avrebbero investito la nave. Senza indugio, abbracciò ad uno ad uno tutti i suoi marinai, quindi ordinò loro di legarlo saldamente alla ruota del timone e poi di scendere sottocoperta dopo essersi assicurati che osteriggi e boccaporti fossero ben serrati.

Poco dopo, il treno di onde anomale investì il Pellegra Madre devastandone la coperta e l’alberatura. Minuti di puro terrore.

Poi, intuendo che il peggio era passato, l’equipaggio tornò malconcio in coperta correndo dal comandante. Questi era ancora legato al timone ma in una posizione scomposta, innaturale, apparentemente privo di vita. Lo slegarono e lo portarono rapidamente nella sua cabina stendendolo sulla cuccetta.

Mentre, piangenti, recitavano una preghiera di commiato, capitan Repetto spalancò improvvisamente gli occhi e chiese ansioso: “siete tutti salvi?”. Dopo qualche istante di sorpresa, gli uomini gridarono un commosso coro di “sì”. Allora il comandante si calmò un poco e chiese la sua pipa per fumare.

Dopo un giorno e una notte di riparazioni la nave tornò in rotta. Capitan Repetto, a seguito dei traumi riportati, perse quasi del tutto l’uso del braccio destro ma continuò a navigare per altri quindici anni.