Il relitto dell’ “Umbria” di Nautica Editrice il 19 Lug 2016 Quel giorno non era la prima volta che visitavamo il relitto dell’ “Umbria”. Già in precedenza avevamo effettuato immersioni intorno alla nave e anche dentro, nelle stive e nei ponti e passeggiate laterali, ma mai eravamo entrati così all’interno. Angelo, l’armatore del “Felicidad”, la barca dove eravamo ospiti lì a Porto Sudan, ci portò nella stiva, dove vi sono delle vecchie automobili Fiat Balilla, nelle cucine e perfino nella sala macchine. L’imprevisto avvenne mentre uscivamo. Era ormai pomeriggio tardo e anche l’aria nelle bombole cominciava a scarseggiare. Finimmo la nostra esplorazione passando per la sala da pranzo. In testa alla fila indiana c’era Angelo, mentre io la chiudevo. Con la mia torcia Mini-Flash Cressi mandavo fasci di luce a destra e a sinistra nei buchi e antri più oscuri. Era dall’inizio dell’immersione che sentivo che avrei trovato qualcosa di importante; è inspiegabile, ma avevo nella mia immaginazione proprio il tipo di oggetto che poi rinvenni. Credevo impossibile che ci fossero ancora reperti del genere dopo più di quarant’anni di permanenza del relitto su quel luogo conosciutissimo e battuto, dopo che Cousteau, Hans Hass e Roberto Merlo l’avevano esplorato in lungo e in largo, e che gruppi di turisti da tutto il mondo ci si erano immersi. Invece la ormai debole luce della torcia colpì un qualcosa di bianco nella melma, in un piccolo e buio sgabuzzino proprio sotto il corridoio d’uscita. Entrai e m’avvicinai, facendo attenzione a non smuovere troppo con le pinne i detriti, mentre gli altri proseguivano verso l’esterno della nave. Presi ciò che spuntava dal fango, sollevando una scia nera di sospensione. Andai fuori, alla luce, e vidi che avevo in mano una tazza di porcellana bianca, con disegnato sul davanti un nodo Savoia e una C maiuscola con una corona. Sotto c’era la firma di fabbricazione: Richard Ginori, 1936. Immediatamente andai fuori a richiamare qualcuno. Trovai Amedeo e a gesti gli dissi di seguirmi. I nostri autorespiratori erano entrati in riserva e avevamo perciò pochi minuti di autonomia d’aria. Rientrammo nella stanzetta buia e affondammo le mani nella nera poltiglia. Riuscii ad estrarre altri oggetti di porcellana – piatti, tazzine, ecc. – mentre Amedeo non trovava nulla. Finalmente con le mani tirò fuori un malloppo incrostato, ma lo rigettò in cerca di porcellane. Al momento di andar via, poiché era a mani vuote, raccolse l’oggetto pieno di incrostazioni e sgusciò fuori. L’ “oggetto” si rivelò poi una teiera d’argento, con una meravigliosa ostrica attaccata su un lato. Da quel momento si è scatenata una specie di “febbre del tesoro”, con storie simili a un film di Walt Disney, con atti di spionaggio, fughe di notizie, giochi d’azzardo, scomparse misteriose, scenette comiche, e tanti altri oggetti ritrovati, tra cui tre bellissime salsiere d’argento: e in quel buio sgabuzzino ormai non rimane più niente. Ma vediamo la vera storia della motonave. L’ “Umbria” era stata concepita come nave da carico e passeggeri (60 cabine e 8 lance di salvataggio). Di costruzione tedesca, fu varata nel 1923 e chiamata “Baia Blanca” durante un periodo passato in Argentina. Con propulsione a carbone, stazzava 10.127 tonnellate. Aveva un cassero centrale, due coperte e due corridoi. Diventata “Umbria”, apparteneva al Lloyd Triestino, ma in quel periodo ci fu un’unificazione di compagnie di navigazione, come il Lloyd Sabaudo e la Cosulich. Questo spiega come mai nei reperti ritrovati alcuni pezzi hanno il simbolo L.T. del Lloyd Triestino e la C maiuscola con corona e nodo Savoia della Cosulich, mentre l’argenteria varia tra la L.S. del Lloyd Sabaudo e L.T.. In ques’ultimo viaggio l’equipaggio era composto di 77 persone, e venivano trasportate 360.000 bombe pari a 6.000 tonnellate, circa 60 casse di detonatori, spezzoni incendari e migliaia di tonnellate di cemento, automobili, moto con side-car e altre merci di secondaria importanza, come bottiglie di vino, bottigliette di profumo e teodoliti. Il carico, fatto a Genova e Napoli, era diretto ai porti di Massaua e Assab, per gli italiani dell’Africa orientale, e infine a Calcutta. Partita il 28 maggio 1940, passa attraverso il canale di Suez il 4 giugno, dopo essersi rifornita a Porto Said di 1000 tonnellate di carbone e 130 di acqua. A bordo salgono 23 persone della marina britannica più due piloti. Il passaggio del canale dura due giorni, invece delle solite tre ore, perché chiaramente gli inglesi temporeggiavano in attesa dello scoppiare della guerra per impadronirsi del carico, cosa impossibile in quel momento perché era un mercantile di uno stato ancora neutrale. Scesi il 6 giugno a Suez, gli inglesi fanno scortare l’ “Umbria” della nave “Grimsby” della Royal Navy, mentre dirige per Massaua, e il giorno 9 giugno, a largo di Port Sudan sul Wingate Reef, viene fermata per un controllo. Vengono buttate le due ancore su un fondale di 25 metri a prua e dall’incrociatore neozelandese “Leander” inviano sull’ “Umbria” un tenente di vascello, Mr. Stevens, e 22 uomini di guardia per il controllo di documenti riguardanti il carico, che si sistemano per passare la notte a bordo. E siamo così al fatidico 10 giugno 1940. Nel pomeriggio il comandante Lorenzo Muiesan fa lavare il ponte sporco di carbone e alle 17,00 (locali) torna in cabina e accende la radio del suo salottino. Improvvisamente, in italiano, una trasmissione da Addis Abeba annuncia: “Trasmissione straordinaria per le truppe dell’impero e gli operai dell’AOI. La guerra sarà dichiarata alle 19,00. Le ostilità cominceranno alle ore 24,00. Prima di tutto il comandante chiamò il suo cameriere, affidandogli tutti i documenti compromettenti e i codici di buttare nella caldaia della cucina, poi fece venire Zarli, il primo ufficiale, per dirgli che era scoppiata la guerra e che bisognava fare di tutto per affondare la nave. L’ordine venne dato al direttore di macchina che con un po’ di riluttanza andò a… provvedere. Intanto il sig. Zarli avvertiva il tenente Stevens che si sarebbe svolta una normale esercitazione di salvataggio, accettata giustamente. In sala macchine i due sabotatori spaccarono con una mazza le due lupe di ghisa connesse alle prese a mare principali, quella ausiliaria e la porta stagna della galleria porta-assi. I due marinai inglesi di guardia, accorgendosi della marea di acqua che entrava, sono corsi da Stevens per informarlo dell’ “avaria” e a quel punto il capitano Muiesan ha dato l’ordine di abbandonare la nave, realmente. Il tenente Stevens andò in cabina dal capitano e gli disse: “Captain, what happens on this ship? (cosa succede su questa nave?)”. “Mi dispiace, Mr. Stevens, ma ho sentito che è scoppiata la guerra, la nave sta affondando e l’unica cosa da fare anche per lei è di raccogliere la sua gente e partire”. Così, inglesi e italiani, tutti sulle scialuppe, salvo Mr. Stevens e il capitano Mueisan che, pronti a scendere, con la nave ormai sbandata, si facevano i complimenti… “Prima lei – disse Muiesan – vado per ultimo anche se ‘now I am you prisoner’ (ora sono suo prigioniero)”. Allora Mr. Stevens rispose: “No, you are my friend (no, lei è mio amico)”. Era tutto emozionato. Il prezioso carico dell’ “Umbria” sprofondò così in due ore, scongiurando il pericolo di finire in mani nemiche. Iniziava così per il suo equipaggio una prigionia lunga cinque anni in quella terra bollente. L'”Umbria”, palcoscenico del primissimo atto eroico italiano della seconda guerra mondiale, giace ancora lì, reclinata su un fianco, con i paranchi per le scialuppe di salvataggio che spuntano sull’acqua e col corallo che la ricopre sempre di più. Per informazioni su un viaggio in Sudan e per immergersi sul relitto dell'”Umbria” potete contattare Aurora Branciamore, Tel 06/5090585, Cell. 0336/868882, del Felicidad II. Questo articolo ti è piaciuto? Condividilo!