La pesca al dentice, il re del fondale di Nautica Editrice il 21 Ago 2016 I più esperti lo insidiano anche sulle secche lontano dalla costa dove non è del tutto improbabile la pesca di vecchi esemplari del peso di 10 chili ed oltre. Dopo aver sperimentato differenti sistemi, attrezzi ed esche, sia naturali che artificiali, in varie zone del Mediterraneo, rivisitiamo in sintesi i metodi più efficaci per dare scacco matto a questo maestoso e diffidente sparide degli alti fondali.La mia personale esperienza con il dentice risale addirittura alla primissima infanzia, quando con la qualifica di “aspirante mozzo” (avevo solo otto anni d’età) seguivo mio padre a bordo della sua lancia fuoribordo Scott-at-water, per interminabili battute di pesca a traina dall’alba al tramonto. La parte negativa di quelle uscite in mare erano le immancabili alzatacce a notte fonda; i lati positivi, i risultati della pesca, quasi sempre molto fruttuosa, a spese di spigole e dentici. Questi ultimi risultavano le prede più frequenti, da uno a sei o sette chili. Per la verità ne prendevamo saltuariamente anche con le coffe innescate a sarda, insieme a cernie di media mole e ad un’infinità di gronghi e murene che avevano la pessima abitudine di aggrovigliare sia i braccioli che la madre del palamito. Il mare a quei tempi era molto generoso, mi riferisco a circa quarant’anni or sono; la nostra area di pesca si estendeva da Ladispoli a Tarquinia, con predilezione della zona di Santa Severa per le spigole e di Sant’Agostino per i dentici. Erano le prime esperienze di traina e pescavamo sia con le lenze a mano con piombi ad oliva distribuiti sulla madre lenza, sia con canne di tonchino ad anelli fissi ed un rudimentale affondatore autocostruito che ci permetteva di trainare fino a 30 metri di fondo. Le esche più efficaci, allora come adesso, erano le aguglie, ma il problema era rappresentato dalla perdita di tempo della loro cattura. Il più delle volte utilizzavamo dei cucchiai ondulanti, con un ciuffo di penne bianche sull’ancoretta. Con il passare degli anni ho collaudato tecniche diverse in luoghi differenti, lasciandomi consigliare dai pescatori locali. A Lampedusa e a Pantelleria utilizzavo una grossa lenza a mano con una sagola di nylon intrecciato, arrotolata attorno ad un manico di scopa e 100 metri di nylon monofilo del ø mm 1,40 con un finale dello 0,80 ed un cucchiaio ondulante del tipo martellato, al quale sostituivo l’ancoretta con un grosso amo ricoperto di piume gialle di marabù. Per affondare la lenza utilizzavo un piombo a battello di circa 2,5 chili, che mi permetteva di raggiungere fondali di 30 metri ed oltre, diminuendo opportunamente la velocità; in questo ultimo caso incurvavo maggiormente la parte più larga del cucchiaio per farlo lavorare bene anche con il motore al minimo. Le reazioni del pesce erano però attenuate dal grosso piombo e dalla lenza pesante.In Sardegna era possibile reperire le aguglie con relativa facilità nel mese di settembre, e mi ricordo che ad Arbatax trainavamo con queste esche in fondali medio-bassi tra i dieci ed i venti metri con poco piombo ed a bassa velocità, catturando dentici tra i 3 e i 6 chili. In Grecia ed in Turchia discreti risultati li ho ottenuti con gli artificiali della Heddon americana ed in seguito con i Rapala sinking magnum tipo cefaletto e maccarello. Solo in questi ultimi anni ho effettuato delle buone catture sia all’Isola del Giglio che a Giannutri, un tempo vero santuario di questo argenteo predone, a traina con il vivo ed a “drifting” con sarde molto fresche ed una costante azione di pastura. Attualmente mi reco tutti gli anni, nel periodo a cavallo fra settembre ed ottobre, in Corsica e nel Nord della Sardegna per la traina ai dentici ed alle ricciole esclusivamente con il vivo. In questi mesi le aguglie abbondano e la cattura dell’esca non comporta più alcuna difficoltà, ma solo la perdita di pochi minuti, purché si conoscano i punti esatti dove cercarle. Ho messo a punto per la pesca a traina un canotto a chiglia rigida HD-SIX della Novamarine e se percorro un tratto di mare che non conosco sfilo in planata lungo la costa con le lenze pronte, ed appena un branco di aguglie, spaventato dal rumore dell’imbarcazione, salta in fuga davanti alla prua, levo il gas ed inizio a pescare in zona sia a traina che da fermo con le canne da punta, pasturando con piccoli pezzi di sarda, crusca e sabbia. E’ molto importante disporre di una bacinella, preferibilmente circolare, dove le aguglie, nuotando in circolo, riescono ad ossigenarsi. Una pompa per il ricambio dell’acqua di mare od un ossigenatore o, ancora meglio, entrambe le cose, mantengono in vita le esche ottimamente. La montatura deve essere semplice da applicare, leggera ed al tempo stesso robusta: due ami n° 3/0 a gambo corto Lion d’Or serie n° 1545/N o Mustad serie 7691 con anellino saldato, inseriti appena sotto pelle, uno verso la coda e l’altro due centimetri dietro l’opercolo branchiale. Per il trasporto si utilizza un piccolo amo inserito nel becco. La montatura può essere realizzata con un doppionylon del ø 0,40 o 0,50 o con nylon monofilo dello 0,70 o 0,80. Nel primo caso, il finale della lunghezza di 25 metri dello 0,40 o 0,50 si raddoppia negli ultimi 40 centimetri, posizionando l’ultimo amo con un nodo fisso e l’amo centrale scorrevole al pari dell’amo di trasporto, essendo variabile la dimensione delle aguglie. Se si cattura un’aguglia grande è preferibile utilizzare ami n° 4/0 e posizionarne tre invece di due, oltre a quello con funzioni di trasporto. Per questo ultimo scopo si può utilizzare un amo della stessa grandezza di quelli fissati lungo il corpo, per il semplice motivo che il dentice se afferra l’esca in testa raddrizzerà con estrema facilità il piccolo amo. In questo caso bisogna fissare l’amo sotto il becco legandolo con un sottile filo di dacron prima intorno alla mascella inferiore e poi, una volta richiusa, intornoalle due mascelle. E’ buona norma, poi, serrare il gambo dell’amo, il becco e il filo della montatura con un centimetro di tubicino elastico (ottimi i tubicini gastrici in lattice di gomma), preventivamente inserito davanti all’amo di testa. A questo punto è consigliabile legare lungo il corpo i due ami della montatura: facile a dirsi, difficile a farsi per le vivaci reazioni dell’aguglia, che però si manterrà così viva e senza alcuna ferita che vivrà a lungo e a fine giornata, in assenza di ferrature, potrà essere lasciata libera e indenne. E’ buona norma, in fase d’innesco, non trattenere l’aguglia per il becco, altrimenti ruota sul suo asse longitudinale aggrovigliando la montatura. Il sistema più valido, considerando che questa montatura richiede un certo tempo di applicazione e due persone per effettuarla correttamente, è quello di trattenere l’animale sotto il pelo dell’acqua della bacinella adibita a vasca per il vivo, avvolgendo il corpo con un piccolo asciugamano. La velocità di traina deve essere la più bassa possibile concessa dal motore; spesso è necessario mettere a folle per consentire alla lenza di affondare maggiormente, tenendo però d’occhio lo scandaglio per evitare di incocciare sul fondo. I fondali adatti alla traina del dentice variano tra i 15 e i 60 metri,a seconda delle zone prescelte. E’ evidente che trainare oltre i 30 metri rappresenta un serio problema e si può attuare solo utilizzando i “down triggers”, affondatori con zavorre moto pesanti. L’utilizzo di un serio scandaglio scrivente, o meglio a cristalli liquidi, è quasi indispensabile non solo per localizzare i banchi di pesce, comunque di difficile discernimento per la presenza di tante altre specie che non si catturano a traina (saraghi, orate, occhiate, salpe ecc.), quanto piuttosto per delineare il profilo del fondo, cercando di evitare i picchi di roccia dove sia l’esca che l’affondatore possono afferrare a guisa di ancora. Ottimo anche il monel, una lega di acciaio molto duttile, da 40 o 50 libbre, che permette di trainare fino a 30 o 35 metri, filando in acqua all’incirca 180 metri di lenza, più i soliti 25 metri di finale di nylon. Il monel richiede molta attenzione mentre si fila in acqua; avendo un peso specifico elevato tende a far girare la bobina ad una velocità maggiore di quella richiesta dal filo stesso, con il risultato di una inestricabile matassa di… acciaio. Inoltre, la coppia galvanica tende ad ossidare le bobine dei mulinelli; è necessario quindi asciugare il filo mentre si recupera a fine giornata, lavarlo poi in acqua dolce e sapone ed una volta al mese estrarlo completamente dalla bobina per cospargerlo con vaselina liquida. Un altro sistema di facile utilizzo è quello del piombo testimone di circa 600 grammi, a palla o a cilindro, piazzato con un bracciolo di nylon sottile, di tre metri, tra la madre lenza ed il finale. Come tutte le medaglie anche lui ha il suo rovescio, costituito da tre inconvenienti. Il primo è quello di non permettere un’azione di traina costante in prossimità del fondo ma un percorso a saliscendi, dimezzando quasi le possibilità di cattura; si è infatti costretti ogni dieci minuti a mettere il motore in folle ed a calare la lenza fino a sentire il piombo che tocca il fondo, per poi ripartire immediatamente, recuperando qualche metro con la manovella del mulinello per evitare di attaccare il peso. Inoltre, in caso di cattura, il piombo attenua le reazioni del pesce sulla lenza e con esse il divertimento dell’angler. Ultimo problema è quello di dover tagliare il bracciolo di tre metri all’atto del recupero; se si è da soli è impresa non facile. Mi ricordo una personale esperienza negativa: avevo sulla lenza una ricciola tra i 10 e i 12 chili e, essendo da solo sul canotto, non riuscii a tagliare il bracciolo del piombo testimone vicino alla legatura sulla girella posizionata tra dacron e finale, ma potei tagliarlo solo un palmo sopra la palla di piombo. Il risultato fu positivo per il pesce e negativo per me, poiché la ricciola fuggì nuovamente con violenza e i quasi tre metri di bracciolo a penzoloni si aggrovigliarono sul finale e sulla leva della frizione,bloccando il rocchetto del mulinello. Un secco schiocco ed il finale dello 0,60 si ruppe lasciandomi con un palmo di naso. I fondali prediletti dal dentice sono le franate di roccia tra i -20 e i -40; ancora meglio se nei pressi ci sono anche buche di sabbia orlate di posidonie. Infatti è solito fare gli “aspetti” alle sue prede stando nascosto fra la vegetazione o nuotando pigramente fra i massi per poi partire con sprint da centometrista per infilarsi tra i branchi di sparaglioni, vope, occhiate ed aguglie, che però frequentano solitamente acque più basse e costituiscono un elemento più occasionale dei suoi menù. Anche castagnole, perchie e canose, e tutti i molluschi cefalopodi sono appetiti dal dentice che non disdegna affatto le sarde, ottime per la tecnica del “drifting”. Sono pescosi i cigli che seguono i pianori rocciosi e le secche al largo, anche se non c’è una regola fissa, sia per i fondali che per le ore migliori da dedicare alla pesca. Una volta ferrato, il dentice inizia il combattimento con violente testate e fughe rapide ma brevi; di solito un esemplare medio, intorno ai 4 chili, combatte con violenza i primi 5 minuti, poi si calma e si fa recuperare senza opporre particolare resistenza; solo in vista della barca tenta un’ultima inutile fuga, ammesso che sia stato catturato ad una profondità media. Se è venuto su da alti fondali, la sua vescica natatoria dilatata gli impedisce d’immergersi nuovamente. Un colpo preciso di raffio od un capiente guadino concludono la cattura in modo definitivo.Un ultimo consiglio: se siete buoni sub, prima della battuta di traina fate un’immersione esplorativa per valutare la composizione del fondo e la presenza di eventuali banchi di esche. Ciò vi permetterà di dare scacco matto al re dei fondali in tempi più brevi. Questo articolo ti è piaciuto? Condividilo!