Nautica 752 – Dicembre 2024

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SALONI

5° Salone Nautico Internazionale di Bologna (Daniele Carnevali) 28 Salerno Boat Show (Sergio Troise) 34


SPECIALE REFITTING

  • Anatomia del refitting (Francesco Baratta) 42
  • Il punto di vista ingegneristico (Andrea Mancini) 52

LE PROVE

  • Greenline Yachts 58 Fly Hybrid (Nico Caponetto) 60
  • Bellini Yacht Astor 36 (Michele Schiesaro) 68

I FOCUS

  • Azimut Seadeck 7 (Roberto Franzoni) 74
  • Maxim Yachts Neo 43 Comfort/Race (Stefano Navarrini) 78
  • Evo Yachts R4+ (Nico Caponetto) 82

STORIA E CULTURA

  • Clima – Un futuro tropicale? (Stefano Navarrini) 86
  • I novant’anni della nave goletta Palinuro (Corrado Ricci) 94
  • Brest: il restauro del Canot de l’Empereur (Giovanni Panella) 100

VIAGGI

  • Leros (Antonio Coppi) 102
  • Repubblica di Malta (Patrizia Magi) 110  

Le Rubriche di questo mese


Libri sul mare consigliati questo mese

(a cura di Bianca Gropallo)


Le ricette di CAMBUSAchef-cambusa


L’editoriale  

“Così come troppo potere corrompe i re, il lusso rovina un’intera nazione”, scriveva nel 1694 François de Salignac, precettore del duca di Borgogna, nel suo Les aventures de Télémaque. Verrebbe da dire che oggi è ancora peggio, poiché, l’attuale abuso di questa parola ha scatenato quello che i linguisti definirebbero “effetto performativo”.

Vuol dire, in sostanza, che a forza di evocare un concetto astratto, finisce che questo si compia, si realizzi, diventi tangibile. Dunque, se qualche decennio fa qualcuno avesse definito “di lusso” un piccolo sloop come il celebre Piviere, chiunque – appassionato o operatore – ne avrebbe colto l’ironia, poiché era evidente a tutti che si trattava di una barchetta destinata a praticare il piccolo cabotaggio tra porti e porticcioli di un’Italia ancora accogliente nei confronti di chi voleva e poteva praticare il diporto spendendo il giusto.

Ora, non più. In quest’epoca dominata dall’immagine, un qualsiasi pessimo comunicatore – dunque parlo di maggioranza – definirebbe quella barchetta “esclusiva”, di una “classe senza tempo”.

Ne parlerebbe, insomma, usando gli stessi termini con i quali si usa descrivere un qualsiasi superyacht e perciò – attenti bene – con la stessa identica insulsaggine: perché se da una parte il definire di lusso un barchino di per sé senza pretese è come dichiarare che il Grande Fratello è un programma di approfondimento, il definire di lusso una nave da diporto che costa qualche decina di milioni di euro è come affermare che santa Caterina da Siena era una brava donna. Da una parte un falso, dall’altra un’ovvietà.

Il problema è che mentre questa insulsaggine non tocca minimamente lo yachting milionario, che sopravvive tranquillamente al più idiota degli influencer, danneggia moltissimo quella piccola nautica da diporto che da sana, discreta, familiare qual era, sta diventando sempre di più un hobby da benestanti. Possibilmente molto benestanti.

E una delle principali cause di questa tendenza – che impedisce lo sviluppo della nostra nautica da diporto, attualmente in crisi checché se ne dica – va ricercata proprio in quell’”effetto performativo” di cui sopra. Perché a forza di dire che tutto ciò che è nautico è di lusso, si è creata un’aura di ricchezza che ha indotto la maggior parte degli addetti ai lavori – cantieri, operatori, commercianti, politici – a rendere ingiustificatamente “caro” ciò che di lusso non è.

Ecco che il costo di un ormeggio è scandalosamente alto; che una vite di acciaio “marino” costa tre-quattro volte quel che dovrebbe; che il proprietario di un piccolo natante deve strapagare gabelle di ogni tipo. La giustificazione valida per tutti i casi è: se ha la barca può permetterselo.

Non a caso all’inizio ho nominato il Piviere. Quella barca di appena 6 metri e 14 era stata inventata agli inizi degli anni ’70 dal compianto Mauro Mancini, il giornalista del quotidiano la Nazione che avrebbe perso la vita a seguito del naufragio del Surprise di Ambrogio Fogar, a circa 200 miglia dalle isole Falkland, nel 1978.

Mauro collaborava con la rivista specializzata Forza 7 – la stessa nella quale io stesso avrei lavorato per alcuni anni – e, non so bene come, riuscì a far produrre il suo piccolo veliero in circa 350 esemplari dal cantiere CBS di Fiumicino. Il suo sogno era quello di farne un’utilitaria del mare, un po’ com’era stato negli anni ’50-’60 con la Fiat 600, che aveva spalancato il mondo delle quattro ruote alla famiglia media italiana.

Fatte le debite proporzioni, in un certo senso ci riuscì, anche perché la sua formula fu ripresa da diversi altri cantieri italiani. Altro che lusso: quella era la nautica popolare.
Corradino Corbò