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(a cura di Bianca Gropallo)
L’editoriale
Come hanno ampiamente dimostrato gli ultimi saloni internazionali, consolidando una tendenza in atto da anni, le porte che la cantieristica mondiale ha spalancato alla fantasia di designer che sono ben più artisti che progettisti – alcuni, talmente terragnoli da confessare candidamente di non aver mai praticato il diporto nautico – ha portato a un rapido allontanamento dall’idea della barca come mezzo di trasporto.
Guarda caso, non è successo in un settore nettamente più tecnologico come quello aeronautico, semplicemente perché non poteva succedere: il cubismo di Picasso non avrebbe mai potuto avere spazio nella progettazione di un Boeing.
E non a caso nomino proprio quell’esperienza artistica, poiché molte delle nuove proposte nautiche che ho visto e analizzato mi hanno riportato a quella “scomposizione dei volumi” e a quel “trattamento schematico dei piani” che caratterizzarono il movimento artistico di avanguardia dovuto al geniale pittore andaluso che peraltro – lo affermo a scanso di equivoci – adoro.
Ciò che invece un poco mi inquieta è che, anziché svilupparsi sulla bidimensionalità di una tela destinata ad essere fissata sul muro di un museo, questa ricerca estetica utilizzi come supporto la tridimensionalità di una carena destinata a muoversi dentro un fluido in perenne sommovimento.
Dico subito che non si tratta di una questione estetica. Anzi, mi arrischio ad affermare che il cubismo in mare non mi dispiace.
Il problema è un altro e lo dico con un esempio. Mentre alcuni costruttori alleggeriscono i ponti superiori usando alluminio o carbonio, ce ne sono altri che li caricano di pesantissimo vetro giustificando la scelta con quell’ormai insopportabile mantra che, proprio come “lusso “e “sostenibilità”, non si può più sentire: “aumentare il contatto con il mare”.
Qualche mese fa, osservavo tutto questo con due ingegneri, co-autori del progetto (attenzione, del progetto e non del design) di uno yacht che stava per essere varato, e alla mia domanda “ma quante decine di tonnellate di finestroni ci sono lassù?” indicando il ponte superiore, si sono guardati fingendo di trattenere una risata. Poi uno dei due ha risposto: “giustamente i designer lavorano con la fantasia, poi sta a noi risolvere i problemi che ne derivano”.
Ecco il motivo per il quale, in molti casi, quei meravigliosi dispositivi che sono gli stabilizzatori non sono più un extra di comfort o d’immagine, ma sono diventati un irrinunciabile “toppa” destinata a compensare le magagne di scafi per i quali è la stabilità ad essere diventata un optional.
D’altra parte lo vediamo da tempo sulle grandi navi commerciali, che sono affidabili – cogliete il controsenso, vi prego – soltanto quando tutto funziona a meraviglia. Ma se qualcosa va storto, sono guai.
E il mondo della vela? Ecco un altro spunto di riflessione, secondo me molto interessante. È parere alquanto diffuso tra i gli osservatori più preparati che, quantomeno entro i limiti dimensionali dei natanti e delle imbarcazioni (insomma escludendo le navi, con buona pace del tutt’ora caldissimo “caso Bayesian”) ed escludendo i mostri destinati alle regate estreme, le barche a vela vengono disegnate e progettate in modo sostanzialmente tradizionale, cioè basandosi sui sani principi della fluidodinamica.
In altre parole, poiché al momento non esistono tecnologie e dispositivi in grado di compensare le stranezze comportamentali di uno scafo a vela “cubista, certe fantasie non sono ammesse. Questo mi conforta tantissimo.
Corradino Corbò