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(a cura di Bianca Gropallo)
L’editoriale
Settembre è finalmente arrivato. Come non dedicare questa pagina ai saloni che questo mese segnano il capodanno fiscale della nautica internazionale? Per non tediarvi con numeri e dati statistici, lo farò cercando di ragionare sull’effettivo valore che, secondo me, questo genere di manifestazioni ha sul piano della comunicazione.
Dunque, è alquanto intuitivo che una mostra che espone 500-1000 barche di tutti i tipi, alcune rese pressoché invisibili dall’affollamento di certe aree, non possa essere visitata come un negozio nel quale si entra per cercare tra i suoi scaffali una camicia della giusta misura o un un’idea-regalo per un compleanno, magari accompagnati da un bravo commesso.
In mezzo a tanto repertorio, o si procede in modo mirato, cioè indirizzando la propria visita verso qualcosa che già si conosce – barca, accessorio o motore che sia – o tutto si traduce, bene che vada, in una faticosa passeggiata del tutto simile a quella che si potrebbe fare in un grande centro commerciale o nell’allegra confusione di un suq: vedere tante cose ma, in sostanza, non osservare nulla in particolare.
Per rendersene conto, basta guardare il pubblico medio che, costituito dalla stragrande maggioranza del totale, si muove in modo spaesato e magari, più per imitazione che per curiosità, finisce per mettersi in fila all’ingresso degli stand più faraonici, dove viene fermato da un solerte personale opportunamente addestrato a filtrare, valutare, ammettere o respingere.
Poi c’è l’altro pubblico. Quello che va al salone tenendo nello zainetto alcune pagine fotocopiate di Nautica – perdonate l’immodestia, ma a raccontarci questa circostanza sono tanti operatori – con le prove, gli articoli o i redazionali riguardanti quelle tre o quattro barche che, rientrando nella sua sfera di interesse, intende visitare con tutta la calma necessaria.
Dunque non la semplice curiosità di chi, più che lecitamente, vuole sognare ad occhi aperti, ma il desiderio di analizzare, approfondire, toccare con mano qualcosa di cui si è già a conoscenza grazie a ciò che si è letto e visto nei mesi precedenti, maturando un’idea ben precisa. Non a caso, è questa l’unica e sola parte di pubblico che a un salone va mettendo in conto la possibilità di acquistare.
Queste osservazioni, basate su una pluridecennale esperienza, aumentano il mistero intorno alla più recente “strategia” di quelle imprese che puntano tutto o quasi tutto su questo genere di manifestazioni, risparmiando illusoriamente sulla fondamentale parte ad esse propedeutica.
E dico “puntano”, proprio secondo l’accezione del gioco d’azzardo, poiché mi riferisco alle loro speranze di rendere produttive cifre che, fatte le debite proporzioni rispetto alle reali dimensioni aziendali, sono comunque sempre astronomiche: parliamo di un arco che può andare dai 50.000 euro del piccolo cantiere che espone un paio di “barchette” a oltre il milione del gigante che espone un’intera flotta.
Vorrei sapere mutatis mutandis se questi signori, come primaria – per non dire unica – strategia di comunicazione commerciale con il pubblico, inserirebbero mai un loro prodotto alimentare nello scaffale di un supermercato, tra una miriade di prodotti simili per non dire uguali o identici.
Con quali probabilità potrebbero essere individuati, riconosciuti e quindi scelti, preferiti e acquistati?Certo, alla fine di un qualsiasi salone, quasi tutti ci raccontano di aver concluso contratti su contratti: nella maggior parte dei casi si tratta della solita ridicola favoletta; in altri (pochi) può non essere una bugia, ma di sicuro è l’errata attribuzione al salone di un merito che, in realtà, spetta soprattutto a ciò che è stato fatto prima: la comunicazione, l’informazione e – perché no? – quella pubblicità che, pur essendosi arricchita di altre forme rispetto ai tempi di Henry Ford, resta pur sempre l’anima del commercio.Corradino Corbò