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L’editoriale
Che il mondo della nautica si sia progressivamente spostato dal mare aperto alla terraferma lo suggerisce la crescente adozione di termini che non hanno alcuna radice nel modo della navigazione. Il più strano e urticante – quantomeno alle mie orecchie – è hôtellerie.
Con esso si intende l’insieme delle utenze e delle funzioni che qualsiasi tipo di unità, dal piccolo cabinato alla gigantesca nave da crociera, dedica al comfort delle persone che vi abitano.
Qualcuno addirittura abbrevia, usando la più comune parola hotel, per esempio nell’orribile forma “l’hotel di quella barca”. Dal punto di vista del significato non è sbagliato, poiché il riferimento a qualità tipicamente stanziali rispecchia perfettamente quell’orientamento d’uso che, avendo condizionato le scelte dei cantieri, ha spalancato le porte del mercato a unità pensate, progettate e costruite soprattutto per stare ferme in porto o, al massimo, se il tempo è assicurato, in rada.
Per le brevi escursioni ci sono tender e similari. Per i trasferimenti – cioè per la navigazione vera e propria, alla quale raramente partecipano gli ospiti – c’è l’equipaggio professionale.
La prova del nove di questa situazione – che ormai non è più tendenza ma regola – è che, attraverso quelle stesse porte, stanno passando tanti architetti (anche molto bravi) che hanno sviluppato la loro esperienza ed esercitato la loro fantasia disegnando esclusivamente ville, attici e, appunto, hotel. Non aggiungo la specifica “di lusso” perché ormai, nella sua superflua ridondanza, questa parola mi dà il voltastomaco.
Ma di questo si tratta. Sul piano pratico, il risultato è che non c’è più da meravigliarsi se l’arredamento di uno yacht presenta spigoli acuminati, scale pericolose, assenza di tientibene, illuminazioni suggestive ma inefficaci, cabine armatoriali posizionate nei punti in cui i movimenti oscillatori dello scafo sono nettamente più pronunciati: se la barca è ferma, complice all’occorrenza un perfetto sistema di stabilizzazione, che problema c’è?
Mi rispondo senza la minima incertezza: c’è eccome. Ma qui si tratta di punti di vista e, se è vero che la barca è un simbolo di libertà, è giusto che ciascuno, entro quei limiti che sono meravigliosamente espressi nel concetto di democrazia, sia libero di usarla come meglio crede purché non limiti il suo prossimo nell’esercitare quello stesso diritto.
Perciò rispetto, anche se non condivido minimamente, persino quel genere di armatore – preferirei chiamarlo immobiliarista – che, risparmiando almeno un 35-40 per cento sul preventivo iniziale e guadagnando tanto volume abitabile, finisce per commissionare al cantiere un grosso cabinato del tutto privo di impianto propulsore (attenzione, non sto parlando di motori fuoribordo). Visto che la sua funzione è soltanto quella di ricevere ospiti di cene e karaoke in porto, che problema c’è?
Sperando con tutto il cuore che questo fenomeno perverso, riscontrato sporadicamente in Estremo Oriente, resti per sempre confinato laggiù fino ad estinguersi, osservo comunque che il netto allontanamento dai canoni della progettazione navale, come riflesso di una chiara domanda di mercato, riguarda anche il grande trasporto passeggeri.
Per rendersene conto basta notare come le navi dell’ultima generazione assomiglino in modo imbarazzante a certi ecomostri, come le Vele di Scampia o La Daille in Val d’Isère. E magari si trattasse soltanto di una questione estetica: guardandole con occhio attento, c’è da chiedersi, per esempio, come facciano a rispettare i trenta minuti imposti dalle regole Solas come tempo limite per l’evacuazione di migliaia di persone: più di 9.000, se pensiamo alle due unità più grandi del mondo, appena varate.
Insomma, non solo a orecchio, quella tra hôtellerie e safety non è una rima facile. Corradino Corbò
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