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L’editoriale
Complimentandosi per l’utilità dell’annuario che pubblichiamo tutti i mesi in fondo al fascicolo, un attento lettore mi ha chiesto nella sua mail come mai per alcune barche non dichiariamo il prezzo. Privatamente gli ho risposto che non siamo noi a non dichiararlo, bensì i rispettivi cantieri.
In questa pagina, vorrei argomentare un po’ più a fondo. Il verbo vendere è la forma univerbata del latino venum dare, cioè dare a prezzo. È quindi ovvio che commerciare qualcosa senza comunicarne l’importo è una contraddizione in termini.
Potrebbe essere un tema da confinare in un ambito squisitamente linguistico se non fosse che si tratta di un comportamento che merita di essere valutato a seconda dei casi: comprensibile e condivisibile quando si parli di pezzi unici o quasi, comunque costruiti su misura; assai meno accettabile quando si tratti di modelli prodotti “in serie”, per i quali la negazione del prezzo-base rientra nella logica di una discutibile strategia commerciale.
Partiamo dal presupposto che il prezzo di un bene può essere formulato sulla base di due principi. Il primo, il più aritmetico, il più trasparente, il più antico, consiste nel sommare tutti i costi sostenuti per costruire un determinato oggetto e portarlo all’ipotetico compratore, aggiungendovi il profitto o margine o guadagno che ragionevolmente si intende ricavarne.
Il secondo, il più speculativo, il più volatile, il più moderno, considera quei costi quasi come una voce accidentale, poiché pone come elemento più determinante la disponibilità di quell’ipotetico compratore a spendere la cifra più alta possibile per accaparrarsi quell’oggetto. Disponibilità che può variare nel tempo e nello spazio per una serie di fattori mutabili, come la moda, la necessità, la ricchezza, l’offerta eccetera.
Banalizzando potremmo dire che, alla semplice domanda “quanto costa questa barca?”, in base al primo principio il venditore risponde altrettanto semplicemente “100” e il potenziale compratore, fatte le sue considerazioni, acquista o rinuncia. Nel secondo caso, invece, è come se il venditore desse quella che si definisce “risposta tautologica”: cioè rispondesse idealmente con la domanda “quanto sei disposto a pagare?”.
A questo punto, il gioco si fa strano, perché, se il possibile/probabile cliente relativamente a quella stessa barca risponde “125”, può sembrare che tutto vada per il meglio: sia per il venditore, che vede aumentare il proprio guadagno personale/aziendale; sia più in generale per tutti quelli che producono quello stesso tipo di barca, visto che l’assicella della sua quotazione sul mercato è stata posta più in alto. Apparentemente va bene pure per l’acquirente, che spende la cifra offerta.
Peccato però che questi non saprà mai quanta parte di essa corrisponde alla qualità effettiva del prodotto, cioè al suo valore intrinseco, e, perciò, gli rimarrà per un bel po’ il dubbio che, se avesse risposto con una cifra inferiore, il venditore avrebbe comunque accettato.
Caso opposto: il cliente risponde offrendo “75”. Stavolta, il venditore si trova di fronte a un grosso dilemma: se dice di no, perde la vendita e si obbliga a rallentare o a fermare la produzione, peraltro senza sapere se nell’immediato futuro riuscirà a realizzare il guadagno sperato; se dice sì recupera del tutto o in parte i costi sostenuti per costruire quel bene e mantiene attiva la produzione, ma in seguito, per sopravvivere, dovrà necessariamente abbatterne i costi. Potrà farlo soltanto in due modi, magari pure combinandoli tra loro: abbassando la qualità del prodotto e/o non pagando – o pagando male – qualche fornitore.
Ma mica è finita. Questa logica liquida – per dirla con Bauman – conduce subdolamente a quel pessimo costume che si chiama sconto, che, proprio come il prezzo non dichiarato, trasforma la negoziazione in una scommessa, in un gioco d’azzardo, nel quale persino la vittoria lascia in bocca il retrogusto amaro del dubbio: “forse avrei potuto ottenere di più”. Ecco perché, in molti, purtroppo, vendono/comprano lo sconto. Ma la barca dov’è finita? Corradino Corbò
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