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L’editoriale
Chiamate pure come volete questa mia energica presa di posizione – difesa di parte, pregiudizio positivo, tutela non richiesta – ma, per piacere, giù le mani dalla Guardia di Finanza e dalla Guardia Costiera.
Nomino in quest’ordine i due Corpi dello Stato perché è in tale sequenza che più di qualcuno ha tentato di addossare loro, in parte o persino del tutto, la responsabilità del naufragio di Crotone, avvenuto nelle prime ore del 26 febbraio scorso.
Politici, giornalisti, opinionisti, gente comune che, con le loro ipotesi, dichiarazioni e chiacchiere, hanno dimostrato la loro siderale lontananza dal mondo del mare.
Non entrerò in alcun dettaglio tecnico di questa tragica vicenda – che, al momento in cui scrivo, conta ottantasei migranti morti per affogamento – poiché, per esperienza e per profonda convinzione, la logica che guida il mio pensiero è diametralmente opposta rispetto a quella che ha segnato la maggior parte di quelle speculazioni. Semplicemente, vado per esclusione. Cioè rifiuto tassativamente l’ipotesi che, lungo le rispettive catene di comando di GdF e CP, qualcuno non abbia saputo o voluto fare il proprio lavoro.
Immagino come, di fronte alle accuse rivolte alle loro divise, debbano essersi sentiti i rescue swimmer, gli aerosoccorritori, gli elicotteristi, gli equipaggi, tutti quegli specialisti che per mestiere – anzi, per missione e per passione – salvano continuamente vite mettendo a rischio le proprie, senza chiedere a nessun malcapitato da dove viene, di che religione è, se è un migrante disperato o un diportista maldestro.
Salvano e basta, in modo silenzioso, senza cercare applausi. Tanto è vero che di questa incessante attività per la salvaguardia della vita umana in mare la cosiddetta “opinione pubblica” sa davvero poco, perché poco informata.
Nel lasciare invece aperte tutte le altre supposizioni, mi prendo la libertà di fare un volo pindarico per inquadrare quello strumento della vita civile che, se costruito e usato in modo sconveniente, diventa il male oscuro che riesce a inceppare il più oliato dei meccanismi: la burocrazia, qui intesa nell’accezione più estesa possibile.
Noi Italiani siamo campioni mondiali di dottrina. Siamo capaci di formulare le più meravigliose enunciazioni ma… sempre con un “ma” che rovina la festa. Abbiamo inventato il Diritto – “Iuris praecepta sunt haec…” insegnava Ulpiano – ma la nostra macchina della Giustizia è in perenne difficoltà. Diciamo – avendo sostanzialmente ragione – che viviamo nel Paese più bello del mondo, ma lo lasciamo immerso nell’immondizia. Sogniamo il ponte sullo Stretto di Messina, ma dimentichiamo che il sistema dei trasporti in Sicilia è fermo all’Ottocento.
Insomma, siamo il Paese delle grandi contraddizioni. A questa sfrenata passione per la teoria, dalla quale discende un’arte retorica che spesso sconfina nella ciarlataneria, corrisponde una specie di allergia al pragmatismo, dalla quale discende l’incapacità di applicare soluzioni semplici a problemi di per sé elementari.
Ciò produce un sistema apparentemente logico che è utilissimo ai pavidi, che lo utilizzano per costruirsi un riparo nel quale infilarsi quando corrono il rischio di essere sopraffatti dalle loro responsabilità personali, ma che rappresenta una trappola per chi, in perfetta buona fede, si trova costretto – per legge – ad anteporre i regolamenti al buonsenso.
Perciò gioca un ruolo particolarmente nefasto in quelle circostanze nelle quali non dovrebbe esserci spazio per i sofismi, per gli esercizi dialettici, per le diverse interpretazioni. Cioè, appunto, in situazioni come quella che si è trasformata nella tragedia di Crotone.
È come se, in quelle lunghe tragiche ore, legislatori, giuristi, filologi e linguisti avessero tutti insieme, in completo disaccordo, preso il comando delle operazioni, sottraendolo di fatto a chi, invece, sapeva esattamente che cosa sarebbe stato giusto fare. Corradino Corbò
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