Nautica 720 Aprile 2022
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L’editoriale
Guardo le fotografie dei megayacht sequestrati agli oligarchi russi e provo un insieme di sensazioni contrastanti. Ciascuna si sovrappone a quell’incredulità di fondo che, se scavo nella mia memoria limitandomi a questo strano millennio, farei nascere con gli attacchi alle torri gemelle ma che so essersi nutrita, nel corso del tempo, di diversi altri avvenimenti epocali.
Resta il fatto che quelle barche sono diventate per l’ennesima volta simboli di verità nascoste, fonti di sospetto, testimoni – se non addirittura protagoniste – di un mondo di mezzo talmente irraggiungibile da poter essere soltanto immaginato.
D’altra parte, sebbene non fosse certamente agli yacht che pensava, Carl Gustav Jung spiegava che il simbolo è portatore di un contenuto che non può essere espresso in altro modo. Da qui, l’alto rischio della banalizzazione, cioè la tentazione di dar vita a pessime equazioni che, nello specifico, la storia della nautica ha già ben conosciuto, purtroppo. Così penso per l’ennesima volta e con lo stesso profondo fastidio a quel “no boat no crime” con il quale, nel 2010, un geniale copywriter della Guardia di Finanza intitolò l’azione che portò al sequestro dello yacht di Flavio Briatore, per un fatto che peraltro – lo dice la sentenza della corte d’appello di Genova, emessa lo scorso gennaio – non costituiva reato.
O anche a quell’incauto tweet di Carlo Calenda che, nel rivendicare la sua integrità morale in risposta a una volgare provocazione, scrisse testualmente: “Mai fatto il portaborse di nessuno. Non ho yacht, non frequento le bische clandestine, non mi occupo di paradisi fiscali o di locali notturni di pessimo gusto. E sto con la stessa donna da 30 anni”. Dunque, non entro nel merito dei sequestri di queste settimane, che, ricompresi nell’ambito delle sanzioni che gran parte della comunità internazionale sta infliggendo alla Russia, voglio interpretare come un fatto squisitamente tecnico e non come un’azione ideologica.
Quindi non discuto se bloccare quello yacht significa congelare un capitale, ma non sono d’accordo se quell’azione viene caricata di altri significati. Quelle barche sono grandi opere d’arte – spesso italiana – e vorrei che come tali fossero raccontate dai media e considerate dall’opinione pubblica. Insomma, vorrei che fossero guardate con lo stesso incanto con il quale si ammira “L’urlo” di Munch per ciò che rappresenta in sé e non per il fatto di appartenere a un finanziere chiacchierato, che lo ha acquistato nel 2012 per 120 milioni di dollari.
Corradino Corbò