Le pinne dei pesci e i tubercoli delle balene; la pelle degli squali e le foglie di loto: la natura è piena di meravigliosi dispositivi idrodinamici messi a punto dall’evoluzione in milioni di anni.

Sistemi altamente efficienti eppure, fino ad oggi, quasi sconosciuti.

Le barche bio-ispirate sono già nate

Bio-mimetica (letteralmente imitazione della vita): così chiamiamo oggi quella scienza che prende spunto dalle migliori “idee” della natura per migliorare le attività e le tecnologie umane. Natura che, fin dalla notte dei tempi, è stata la spinta propulsiva dell’evoluzione.

Non a caso, un certo Albert Einstein a riguardo diceva: “Ogni cosa che puoi immaginare… la natura già l’ha creata”, parole che ci fanno capire come, anche per una mente superiore come la sua, la natura sia stata fonte di ispirazione per ogni nuova idea, teoria, invenzione che l’uomo potesse, appunto, anche solo immaginare.

Caravella
A imitazione dei pesci che manovrano con la pinna caudale, il timone si trova a poppa della barca, come si può notare anche su questo modello d’epoca di una nave del XV secolo

La scienza della biomimetica

Il primo passo di questa scienza è, necessariamente, quello di studiare e comprendere i processi alla base di quel dato fenomeno che si vuole imitare. Perché imitare senza capire può portare a errori, anche grossolani. Non a caso, spesso si parla di scienza bio-ispirata, termine che, personalmente, preferisco.

Una particolare branca di questa scienza – bio-mimetica o bio-ispirata che sia – è quella relativa alla fluidodinamica e, in particolare studia come certi animali, come uccelli, pesci, insetti eccetera, riescano ad avere performance incredibili, spesso non giustificabili con le nostre attuali conoscenze. Applicare le conoscenze scaturite da questi studi per migliorare le performance di una nave o di una barca non potrà che essere il passo successivo.

disegno Baker
Non basta imitare la natura, prima bisogna capirla nel profondo. Altrimenti si rischia di cadere in gravi errori, come quello in cui incorse Mathew Baker, uno dei primi costruttori di navi a disegnare preliminarmente le forme della carena. In questo suo disegno (1585 circa), Baker evidenzia l’analogia tra la vista laterale di un galeone elisabettiano e un merluzzo, convinto che imitare la natura e disegnare una carena a forma di pesce fosse la soluzione migliore. Ma aveva trascurato una fondamentale differenza: i pesci “navigano” sempre sott’acqua e non producono onde, mentre le barche navigano sulla superficie di separazione tra due fluidi, acqua e aria, e producono onde.

A pensarci bene, questo processo ha sempre accompagnato l’evoluzione del mezzo navale e più in generale, l’evoluzione della scienza. Non a caso, nei secoli passati, quando si approcciava il progetto di una nave, si diceva: “se vuoi progettare una buona barca, guarda un pesce o un cigno”.

E magari non ci facciamo caso, ma già oggi le nostre imbarcazioni sono piene di soluzioni scaturite dall’osservazione di un pesce, di un uccello, di un insetto.

Pensate ad esempio al timone che, su ogni barca, piccola o grande, lenta o veloce, è da sempre posto a poppa: vi siete mai domandati perché? Per rispondere basta osservare i pesci e, in particolare, la loro pinna caudale, la “coda” con la quale, oltre a ottenere la spinta propulsiva, direzionano il loro movimento.

Oppure osservate quelle strutture che caratterizzano la costruzione di una barca in materiale composito, il cosiddetto sandwich, che permette di realizzare un’opera molto leggera, ma allo stesso tempo rigida e robusta. Stiamo parlando del nido d’ape, così chiamato perché ispirato all’architettura con la quale le api costruiscono la loro città, il favo.

Non basta imitare, copiare la natura

Bisogna prima capirla nel profondo, comprendere i meccanismi che sono alla base del fenomeno che vogliamo riprodurre.

Altrimenti possiamo incorrere in gravi errori, come quelli commessi persino da un genio come Leonardo, che voleva far volare l’uomo con un’elica avvitata nell’aria o con delle ali battenti, senza però conoscere la portanza, cioè quella forza che, frutto di un gioco di pressioni e depressioni che si sviluppano intorno a un’ala, fa volare un aeroplano.

Oppure, tornando al nostro campo, l’errore di costruire carene a forma di pesce (“testa grossa e culo fino” come dicevano i marinai di una volta) trascurando una fondamentale differenza: i pesci “navigano” sempre sott’acqua e non producono onde, mentre le barche navigano sulla superficie di separazione tra due fluidi – acqua e aria – e producono onde.

Di questo particolare e dei suoi effetti ci si rese conto solo con gli studi sperimentali condotti in epoca illuministica, quando, proprio osservando le onde che si formavano ai lati dello scafo e la loro strettissima dipendenza dalle forme della carena, si riuscì a definire nuove forme, diverse a seconda dell’utilizzo e, quindi, della velocità della nave. Tutte cose di cui abbiamo parlato tante volte in passato, proprio su queste pagine.

Cerchiamo quindi di capire come la natura affronta certi problemi, suggerendoci nuove soluzioni atte a migliorare l’efficienza delle barche.

Gli ingegneri che circa cento anni fa progettarono le prime pinne stabilizzatrici si ispirarono alle pinne laterali che i pesci utilizzano per muoversi e anche per stare fermi.
Le pinne stabilizzatrici sono poste più o meno a centro carena, a metà lunghezza barca e in corrispondenza del cosiddetto ginocchio, ovvero il raccordo tra fondo e murata. Proprio come nei pesci.

Le pinne dei pesci

Incominciamo questo viaggio nella biomimetica applicata alle imbarcazioni partendo dalle pinne che i pesci utilizzano per muoversi e per manovrare, ma anche per stare fermi. Fateci caso, esse sono poste più o meno al centro del corpo del pesce, nel senso sia della lunghezza sia dell’altezza, esattamente come sulle carene.

Infatti, le pinne stabilizzatrici sono poste circa a metà lunghezza dello scafo e in corrispondenza del cosiddetto ginocchio, ovvero il raccordo tra fondo e murata: praticamente al centro della carena, quando le pinne sono una coppia; simmetriche rispetto al centro della carena quando sono due coppie, due a dritta e due a sinistra.

Analogamente a quelle dei pesci, queste pinne compiono piccole rotazioni intorno a un asse perpendicolare alla superficie generando una forza che si oppone al movimento di rollio dell’imbarcazione, limitandolo.

Ma questa delle pinne stabilizzatrici non è certamente una novità, visto che sono utilizzate da oltre un secolo. Ben diverso è l’utilizzo delle pinne per la propulsione, una soluzione quasi universalmente adottata dai pesci e da tutti quegli animali che pesci non sono ma che vivono e si muovono in acqua, come delfini, otarie e balene.

Perché la natura, per muoversi in acqua, non usa il movimento rotatorio come fanno gli esseri umani con le eliche.

In natura i muscoli si contraggono e si espandono in un movimento simile a quello che fanno i pistoni di un motore, che però noi convertiamo in un movimento rotatorio che, appunto, fa girare un’elica.

Un’operazione che semplifica enormemente il trasferimento del moto e che, di fatto, ha reso la propulsione a elica l’unica possibile.

Ma oggi, alla luce dell’attuale tecnologia, non potrebbe esserci un modo per far diventare vantaggiosa la “propulsione pinnata” anche per un’imbarcazione? Qualcuno ci ha provato. Infatti, parallelamente ai pesci robotici, veri e propri pesci artificiali che si stanno perfezionando per scopi di ricerca, esplorazione e controllo dei mari, rappresentando la frontiera tecnologica per i prossimi decenni (si veda box di approfondimento), esistono alcune applicazioni di propulsione pinnata su imbarcazioni normali…o quasi.

O-foil
O-foil è l’ampia ala orizzontale che oscilla in su e in giù sotto la poppa della chiatta “Triade”, con un movimento che imita quello della coda della balena

O-Foil

Ad esempio, nel 2013, nei Paesi Bassi, la chiatta per la navigazione interna “Triade” venne dotata di un’ampia ala orizzontale che oscillava in su e in giù, sotto la poppa, con un movimento che imitava quello della coda della balena.

La chiamarono O-foil. In pratica, con un sistema di bielle azionate da un motore, questa grande ala posta traslava verticalmente scorrendo tra due appendici esterne simili a due timoni: una costruzione molto robusta che, peraltro, consentiva la navigazione in acque molto basse.

Mentre scorreva, l’ala oscillava cambiando angolazione in modo da dare ciclicamente delle “pinnate” propulsive.

Anche senza raggiungere gli obiettivi di efficienza, previsti intorno al 50%, nei primi giorni di navigazione con l’O-foil furono raggiunti risparmi di carburante fino al 30%.

Quindi una soluzione con molte potenzialità, ma purtroppo non supportata da una adeguata azione commerciale, con il risultato che l’azienda O-foil fallì per mancanza di sufficienti ordini successivi. Per la cronaca, la “Triade” navigò con l’ala O-foil per tre anni, fino al 2016, quando si ruppe una delle bielle e si decise di non continuare sulla strada intrapresa.

Delle potenzialità delle pinne per spingere una barca ne è convinta l’azienda francese FinX, che da un paio d’anni propone fuoribordo elettrici a propulsione bio-ispirata.

Tra questi, un modello che al posto dell’elica ha una membrana elastica deformabile che, posizionata tra due flange, viene azionata sul suo bordo anteriore da un motore lineare che la fa ondeggiare come una pinna di pesce ottenendo una spinta in avanti.

L’idea è quella di imitare il movimento lento e ampio delle pinne caudali dei delfini utilizzando una membrana elastomerica progettata per ondeggiare con un movimento che massimizza la spinta e attenua gli effetti di beccheggio.

Funziona? Pare di sì, visto che si tratta di una soluzione già in commercio e che, oltretutto, offre il grande vantaggio della sicurezza, in quanto non ha un’elica. Certo, oltre 70.000 euro per un fuoribordo da 120 kW sono decisamente una bella cifra, anche se parliamo di un fuoribordo elettrico con batterie incluse.

Da un paio d’anni l’azienda francese FinX produce fuoribordo elettrici a propulsione bioispirata. Al posto dell’elica hanno una membrana elastica deformabile che ondeggia come la pinna di un pesce per ottenere una spinta propulsiva. Nella propulsione pinnata, per ottenere la spinta in avanti, l’ala cambia istante per istante la sua angolazione rispetto al flusso incidente alla direzione di avanzamento.
 

 

Le pinne e le onde

Fin qui abbiamo parlato di pinne attive, cioè di dispositivi che vengono azionati da un motore per generare una spinta. Ora, invece, parliamo di pinne passive, cioè quelle pinne che recuperano energia dal movimento della barca sulle onde. Come, ad esempio, la “rudder flipper” – letteralmente pinna del timone – sviluppata dalla Ocius Technology di Sydney, Australia, per piccole unità dedicate alla ricerca e al monitoraggio in mare.

Tecnicamente si tratta di piccole imbarcazioni a guida autonoma, dette USV (unmanned surface vehicle), lunghe intorno ai 6 metri e larghe poco più di uno. Operative in qualsiasi condizione meteomarina, la loro peculiarità innovativa è quella di avere tre diversi sistemi propulsivi che utilizzano fonti di energia sostenibile e rinnovabile come sole, vento e onde.

Questi mezzi sono dotati, infatti, di pannelli solari e di una vela rigida abbattibile a cui si aggiunge – ed è questo il particolare che ci interessa – una pinna orizzontale attaccata sotto la prua. In questa posizione, la pinna si oppone naturalmente ai movimenti verticali della barca sulle onde, smorzando il beccheggio.

Allo stesso tempo, poiché l’ala orizzontale è flessibile, oscilla con i movimenti verticali dello scafo generando una spinta in avanti. Insomma, l’ala recupera l’energia generata dal movimento della barca sulle onde e la trasforma in spinta propulsiva. Ovviamente, questo effetto smorzante – che migliora la tenuta di mare in condizioni di maltempo – migliorerebbe il comfort in caso di applicazioni su barche con equipaggio.

I progetti

Non a caso il fondatore e CEO di Ocius Technology, Robert Dane, sta seriamente pensando di costruire una gamma di yacht elettrici, da 40 a 60 piedi di lunghezza, che abbiano il rudder flipper come una delle loro caratteristiche distintive.

“Il rudder flipper da solo garantisce una propulsione piuttosto lenta per un’imbarcazione con equipaggio“, spiega Dane. “Ma in combinazione con la vela, spero possa migliorare la navigazione grazie ai moti smorzati della barca. Poi in caso di brutto tempo, il dispositivo funge in modo sorprendente da ancora galleggiante. Con la vela abbassata e con un po’ di spinta dell’elica, il timone può mantenere la prua al vento e la barca può andare ovunque. Avrei anche deciso il nome per queste barche: Green Sunrise“.

E mentre Dane continua a sviluppare questo progetto, la sua azienda ha già fornito alla Marina Militare Australiana ben 7 di questi mezzi autonomi di superficie dotati di ala flessibile. Segno tangibile che la tecnologia funziona.

La Ocius Technology di Sydney, Australia, ha costruito una serie di piccole unità autonome di superficie per la ricerca e il monitoraggio in mare completamente sostenibili dal punto di vista energetico perché propulse, oltre che dall’energia del vento e del sole, da una pinna orizzontale (rudder flipper) capace di recuperare l’energia del movimento della barca sulle onde trasformandola in spinta propulsiva.

Quella di utilizzare delle pinne per recuperare l’energia insita nel movimento dell’imbarcazione sulle onde è una tecnologia molto promettente sulla quale si stanno concentrando molte risorse, sia di grandi cantieri sia di istituzioni di ricerca.

In questo scenario ci piace però ricordare l’impresa di un simpatico signore giapponese, il marinaio e ambientalista Kenichi Horie, che già nel 2008 attraversò il Pacifico, dalle Hawaii al Giappone, con il Suntory Mermaid II, un piccolo catamarano di 9,5 metri realizzato in lega di alluminio riciclato, capace di trasformare l’energia delle onde in spinta propulsiva.

Anche in questo caso, il sistema era composto da due pinne montate sotto la prua – una accanto all’altra – in grado di muoversi in su e in giù con le onde generando una spinta in avanti. Più o meno come i delfini. “Le onde sono un fattore negativo per una nave: la rallentano“, afferma Yutaka Terao, professore di ingegneria alla Tokai University in Giappone che ha progettato il sistema di propulsione della barca.

Ma il Suntory può trasformare l’energia delle onde in potenza propulsiva indipendentemente dalla provenienza dell’onda“. Una curiosità che può apparire paradossale: il viaggio durò più del previsto, ben 110 giorni, a causa delle condizioni meteorologiche insolitamente buone e perciò del mare calmo che rallentò la navigazione. Ironia della sorte.

Due pinne montate sotto la prua del catamarano Suntory Mermaid II, mosse in su e in giù dalle onde con un movimento simile a quello della coda di un delfino, sono state il “motore” con il quale, nel 2008, Kenichi Horie ha attraversato l’Oceano Pacifico

Tubercoli

Dalle pinne spostiamo la nostra attenzione a un particolare dispositivo idrodinamico di cui sono dotate le pinne di alcuni animali, tra cui le megattere (megaptera novaeangliae), la specie di cetaceo che, tra le tante, è sicuramente quella più rappresentativa anche per le sue armoniche danze e i suoi salti straordinari.

Questa eccezionale agilità è possibile grazie alle grandi pinne pettorali, dell’ordine dei 5 metri di lunghezza, che sono caratterizzate da una flessibilità particolarmente accentuata e, soprattutto, dalla presenza di protuberanze di forma ellittica che si sviluppano sul bordo di entrata, la parte anteriore della pinna, a intervalli e dimensioni variabili.

Queste protuberanze sono chiamate tubercoli e sono disposte in modo sinusoidale dando alle pinne un aspetto “a pettine”. Se ne contano solitamente tra 9 e 11. Proprio i tubercoli sono oggetto di numerosi studi perché – è ormai appurato – la loro presenza migliora le caratteristiche fluidodinamiche delle pinne conferendo all’animale un’alta capacità e rapidità di manovra che gli permette di eseguire movimenti repentini, molto utili soprattutto durante la fase di caccia.

In pratica queste pinne sono usate come “timoni” biologici, rendendo possibili manovre particolarmente ardue, come le curve strette o l’inside loop (anello interno) durante il quale la balena riesce a compiere una rotazione di 180 gradi (in pratica una “inversione a U”) per poi scattare verso la sua preda. Movimenti insospettabili se si pensa alla mole di questi animali.

megattera
La pinna pettorale della megattera e i suoi caratteristici tubercoli

Ancora tubercoli

A dire il vero queste qualità non sono solo merito dei tubercoli. Infatti, le pinne delle megattere hanno pure un fattore di allungamento che le rende più efficienti (sono molto più lunghe che larghe) e, soprattutto, cambiano la loro forma e la loro posizione spaziale a seconda del movimento che la megattera intende compiere.

Infatti, grazie alla capacità di percepire il flusso e lo spazio in cui si muove, la megattera muove le pinne cambiandone la forma istante per istante in modo da ottenere il movimento desiderato.

Un po’ quello che fanno gli uccelli con le loro ali durante il volo. Insomma, le pinne delle megattere sono una macchina molto complessa della quale, al momento, siamo in grado di imitare solo una piccola parte – i tubercoli – con un sufficiente grado di fedeltà.

Cerchiamo quindi di capire che cosa fanno questi tubercoli. Anche se non è ancora del tutto chiaro il loro funzionamento, è stato appurato che, rispetto a una superfice alare liscia, ogni tubercolo genera due vortici, uno per ogni lato.

In questo modo, all’interno del canale tra due tubercoli contigui si trovano a scorrere due vortici controrotanti (counter-rotating vortex pairs, CVP) che, avanzando, cambiano progressivamente pressione e velocità locali del fluido, generando all’interno dello strato limite un flusso turbolento che tende a separarsi più tardi rispetto a un flusso laminare come quello che ci sarebbe in assenza di tubercoli.

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Ciascun tubercolo (peak) crea due vortici controrotanti (counter-rotating vortex pairs, CVP) che, avanzando, cambiano progressivamente pressione e velocità all’interno del canale.

Strato limite, flusso laminare e turbolento: sono parole e concetti un po’ difficili dei quali abbiamo parlato approfonditamente in passato su queste pagine (vedi Nautica n. 730 del febbraio 2023).

Ora ci preme solo ricordare che questo fenomeno ritarda la separazione del flusso che si verifica quando aumenta troppo l’angolo di incidenza dell’ala, ritardando di fatto il fenomeno dello stallo, soprattutto in presenza di grandi angoli di attacco, senza sostanziali aumenti di resistenza indotta (forma di resistenza connessa alla portanza che rappresenta il “prezzo da pagare” per generare portanza).

In pratica i tubercoli aumentano il range di utilizzo del profilo alare che può lavorare con angoli di incidenza maggiori. Nel caso specifico delle megattere, i tubercoli consentono loro di mantenere la “presa” sull’acqua ed eseguire virate con angoli più stretti, anche a bassa velocità.

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I tubercoli generano, all’interno dello strato limite, un flusso turbolento (a destra) che tende a separarsi più tardi rispetto a un flusso laminare come quello che ci sarebbe in assenza di tubercoli (a sinistra).

Test in galleria del vento di modelli di pinne di megattere, con e senza tubercoli, hanno dimostrato che la loro presenza riduce del 32% la resistenza, migliora dell’8% la portanza e, soprattutto, aumenta del 40% l’angolo di attacco prima dello stallo.

Inoltre, si è visto che l’interazione tra i vortici prodotti dai tubercoli e lo strato limite ha anche l’effetto di ridurre la cavitazione e il rumore prodotto. Insomma, una tecnologia molto promettente ancora da studiare a fondo.

 
tubercoli
Qualcuno, sull’onda dei primi studi e dei promettenti risultati, ha deciso sfruttare i vantaggi offerti dai tubercoli.
Per esempio, la giapponese Takuma, che produce una linea di foil per tavole e kitesurf acrobatici, e la californiana Fluid Earth Fins di Henry Swales, che produce speciali pinnette per surf.

E le applicazioni?

Un particolare campo dove questa tecnologia sembra affermarsi più che in altri, almeno per ora, è quello delle turbine eoliche, eliche per droni e ventilatori di ogni tipo (da soffitto, industriali, per computer ecc.). Ma i tubercoli hanno fatto la loro comparsa anche in campo automobilistico, in particolare nel mondo della Formula 1 nel corso della stagione 2013/14, quando sono stati applicati al bordo d’attacco dell’alettone posteriore della McLaren MP4-29. Ovviamente non sono mancati gli studi di possibili applicazioni sulle ali degli aeroplani ma, per ora, siamo ancora alla fase sperimentale.

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Applicazione della tecnologia dei tubercoli sulle pale di una turbina eolica.

E per quanto riguarda le barche a che punto siamo? In generale, è possibile adottare i tubercoli per migliorarne i profili idrodinamici. Ad esempio, nella vela, i tubercoli emergono periodicamente come la panacea per timoni di barche da regata ad alte prestazioni, che tendono a stallare o a ventilare.

Ma si tratta sempre di applicazioni estemporanee, frutto più dell’estro del progettista di turno che si basa soprattutto sul suo intuito, che sui pochi dati disponibili.

Un reale e promettente campo di applicazione è anche quello delle eliche. In questo ambito sono in corso molte ricerche che studiano gli effetti dei tubercoli posizionati sul bordo d’attacco delle pale, mostrando come questi spostino in avanti il punto di stallo aumentando il range di lavoro del profilo stesso (caratteristica che, più in generale, è molto interessante per tutti i profili portanti ad alte prestazioni, come nel caso dei foil). In pratica l’efficienza dell’elica dotata di tubercoli si mantiene elevata anche al di fuori delle condizioni ideali di progetto.

Presso l’Istituto di Ingegneria del Mare del CNR sono in corso da anni esperimenti su eliche e, più in generale, su profili idrodinamici dotati di tubercoli. Nella foto, il sistema propulsivo di un rimorchiatore costituito da un’elica che ruota all’interno di un mantello, entrambi dotati di tubercoli (Progetto Horizon EU “RESHIP”).

La foglia di Loto

Se fino ad ora abbiamo parlato di elementi ben visibili, come pinne e tubercoli, ora ci addentriamo nel mondo dell’invisibile, almeno ad occhio nudo: il mondo che parte dalle microstrutture per arrivare alle nano-strutture (strutture a livello atomico).

Parliamo, ad esempio, del cosiddetto “effetto loto”, il cui nome deriva dalla pianta nota per le sue proprietà autopulenti e fortemente idrorepellenti che rendono la superficie delle sue foglie superidrofobica. Con questa strana parola si indica quel fenomeno per il quale le foglie respingono le gocce d’acqua.

Ciò avviene grazie al rivestimento della foglia, costituito da numerosi cristalli di cera idrofobica nei quali l’aria resta intrappolata rendendo minimo l’effettivo contatto tra goccia e superficie ruvida della foglia.

E la goccia scivola via con un attrito ridottissimo. Evidentemente, riuscire a rendere superidrofobica la superficie di una barca permetterebbe di ridurre drasticamente l’attrito dell’acqua che scorre sulla superficie dello scafo e ridurre sensibilmente i consumi.

Negli anni sono stati sviluppati svariati metodi per la realizzazione di superfici di questo tipo, tutti basati sulle proprietà che stanno alla base di questi materiali, ossia la bassa energia superficiale (che misura il modo in cui un solido permette a una sostanza liquida di aderire alla propria superficie) e un’adeguata rugosità.

I materiali che meglio si prestano sono i polimeri che, grazie alla loro versatilità, si adattano bene a essere lavorati per creare questo tipo di superfici. Quindi vernici, trattamenti superficiali che però hanno il problema di un elevato costo e della durata in un elemento ostile come l’acqua salata.

La superficie superidrofobica della foglia di loto rende minimo il contatto tra la goccia d’acqua e la superficie ruvida della foglia. La sfida è quella di riuscire a ricreare dei rivestimenti artificiali con queste proprietà da applicare sulla superficie di una carena, di un’elica, di un foil.

La pelle degli squali

Concludiamo questa panoramica rimanendo nel campo delle microstrutture e parlando dell’ultima frontiera di soluzioni bio-ispirate applicabili a una barca: la pelle degli squali. O meglio, delle piccole scaglie di cui essa è composta minuscole strutture tridimensionali a forma di incudine chiamate denticoli. E sono proprio queste strutture a rendere gli squali dei nuotatori formidabili, capaci di velocità incredibili.

Almeno questo è quello che sostengono Benjamin Savino e Wen Wu, due fisici dell’Università del Mississippi che proprio all’inizio di quest’anno hanno pubblicato un’approfondita ricerca nella quale riportano i dati delle loro complesse simulazioni al computer.

Infatti, proprio il computer e i potenti algoritmi di calcolo oggi a disposizione hanno permesso di riprodurre un fenomeno che ha fatto impazzire gli scienziati per decenni, costretti ad accontentarsi di esperimenti inconcludenti condotti su strutture semplificate, dato che parliamo di strutture talmente piccole (meno di mezzo millimetro) e complesse che riprodurle in laboratorio è un’impresa titanica.

E analizzarle direttamente sulla pelle dello squalo è ancora più difficile, perché una volta rimossa dal pesce, la pelle perde le sue proprietà speciali. Insomma, è come avere tra le mani un oggetto magico che smette di funzionare appena lo tocchi.

pelli squali
Ricostruzione virtuale delle piccole scaglie di cui è composta la pelle degli squali: minuscole strutture tridimensionali a forma di incudine chiamate denticoli (da “Thrust Generation by Shark Denticles”, di Benjamin S. Savino e Wen Wu, Journal of Fluid Mechanics 2024).

Le potenzialità di un modello virtuale hanno, invece, permesso di ricreare matematicamente la “vera” pelle degli squali, con tanto di pilastri di sostegno e teste a martello incastrate tra loro. Le simulazioni fluidodinamiche hanno finalmente permesso ai ricercatori di comprendere il meccanismo di funzionamento e il movimento del fluido attorno a queste strutture.

E qui la grande sorpresa: le teste dei denticoli non si limitano solo a ridurre l’attrito, ma iniettano attivamente del fluido nello spazio protetto sotto di esse, creando una sorta di onda inversa. Ed è questo “effetto onda” la chiave di tutto. Perché genera una spinta propulsiva nella direzione del moto, come un minuscolo motore idrodinamico integrato nella pelle. Una scoperta che ha lasciato a bocca aperta i ricercatori e che potrebbe rivoluzionare il modo in cui progettiamo navi e sottomarini.

Ma le sorprese non finiscono qui. Savino e Wu hanno scoperto un altro dettaglio cruciale: i denticoli funzionano meglio quando sono posizionati su una superficie curva, come il dorso di uno squalo. È lì che si crea il gradiente di pressione ideale per iniettare il fluido nello spazio protetto e generare la spinta inversa.

Un meccanismo talmente efficace da indurre a pensare che, nel loro processo evolutivo, gli squali possano aver sviluppato delle gobbe sulla pelle proprio per sfruttarlo al meglio. Insomma, lo squalo si rivela come una sorprendente lezione di ingegneria: il frutto di milioni di anni di evoluzione che la natura ci ha messo sotto il naso e che solo ora stiamo iniziando a capire.

Certo, per le applicazioni c’è ancora molto lavoro da fare. Bisogna capire come realizzare i denticoli e mantenerli puliti dal fouling marino, come integrarli al meglio nelle superfici curve dei nostri mezzi. Ma la conoscenza è il primo passo per poi trovare delle soluzioni.

Il segreto dell’efficienza idrodinamica degli squali sta nella loro pelle, che è composta da microstrutture che non solo diminuiscono l’attrito ma creano una sorta di onda propulsiva.

I pesci robotici

Se le creature che vivono nei nostri mari hanno sviluppato la “propulsione pinnata” e non l’elica, un motivo ci sarà. Efficienza idrodinamica (ovvero minore dispendio di energia per muoversi), elevata rapidità e capacità di manovra sono stati elementi fondamentali della selezione naturale delle creature marine.

E, allora, perché non cercare di studiarne le caratteristiche e cercare di riprodurre questo tipo di propulsione anche su dei mezzi umani?  Soprattutto oggi che la tecnologia inizia ad essere sufficientemente matura per rendere possibili quei complicati cinematismi in grado di riprodurre i movimenti di un pesce.

Proprio questi presupposti sono alla base degli studi e delle ricerche con cui in questi ultimi anni si stanno realizzando, se non delle vere imbarcazioni, dei mezzi autonomi per la ricerca e la sorveglianza del mare. Mezzi che chiaramente hanno la forma del pesce e come esso si muovono, ispirati dal movimento oscillatorio della sua coda, noto come “fish-like”.

Primo modello di pesce robotico dual-use, per applicazioni sia militari sia civili, sviluppato presso l’Istituto di Ingegneria del Mare (INM) del CNR.

Veicoli come gli AUV e i ROV

Parliamo di quei veicoli autonomi marini, come gli AUV (Autonomous Underwater Vehicles) e ROV (Remotely Operated Vehicles), che attualmente sono dotati di eliche o altri sistemi di propulsione che, oltre a generare rumore idrodinamico, li rendono facilmente individuabili, soprattutto in contesti militari. Inoltre, presentano spesso una limitata efficienza, riducendone così l’autonomia operativa.

In particolare, per affrontare tali problematiche presso l’Istituto di Ingegneria del Mare (INM) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), meglio conosciuto come la vasca navale di Roma, da alcuni anni si conducono studi ed esperimenti proprio per capire meglio come funziona il nuoto pinnato dei pesci e come sia possibile riprodurlo per utilizzarlo per la propulsione di mezzi marini.

Una di queste ricerche, condotta da Elena Ciappi e Elena Paifelman in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale dell’Università La Sapienza di Roma, mira alla realizzazione di un veicolo autonomo subacqueo con propulsione bio-ispirata sviluppando un sistema robotico dual-use, per applicazioni sia militari (per una locomozione silenziosa e raccolta dati passiva) sia civili (per la localizzazione e raccolta dati tramite strumenti acustici).

pesci robotici
Secondo prototipo di pesce robotico, dotato di una coda flessibile a rigidità controllata, in prova nel canale di circolazione dell’Istituto di Ingegneria del Mare (INM) del CNR.

Per il nostro prototipo – ci spiega la ricercatrice Elena Paifelman – sono previste condizioni operative gravose, in termini sia di profondità sia di autonomia, che prevedono che all’interno del prototipo sia alloggiata molta sensoristica. Necessariamente, le dimensioni del corpo del pesce non potranno essere inferiori al metro. Proprio quella delle dimensioni è stata la prima sfida che il nostro gruppo di ricerca ha dovuto affrontare, poiché la letteratura scientifica esistente si concentra principalmente su pesci robotici da laboratorio in piccola scala, parliamo di centimetri”. Per arrivare al prototipo, i ricercatori dell’INM hanno sviluppato modelli matematici per valutare l’efficienza della pinna caudale oscillante, consentendo così di ottimizzare la geometria del propulsore.

Infatti, “il design affusolato e il movimento fish-like – continua l’ing. Paifelman – presentano numerosi vantaggi, tra cui la riduzione della resistenza idrodinamica, un aumento dell’efficienza propulsiva, una maggiore manovrabilità e la capacità di recuperare energia dalla scia generata dai vortici. Inoltre, l’assenza di parti rotanti nella propulsione riduce significativamente il rumore, rendendo i veicoli più adatti per operazioni silenziose.” Attualmente, sono in corso test sperimentali presso i laboratori dell’INM per valutare le prestazioni della pinna caudale e validare il modello matematico. La fase successiva prevede test in ambienti controllati per misurare resistenza, efficienza e capacità di navigazione autonoma dell’intero robot fish-like.

Nell’ambito di un’altra ricerca, finanziata e condotta sempre dall’INM, sono in corso esperimenti su un modello di pesce robotico ispirato a pesci altamente performanti in termini idrodinamici.

In particolare, ci spiega Luca Padovani, il ricercatore che sta conducendo questi esperimenti, “le piattaforme robotiche ispirate ai pesci sviluppate in questi anni con l’obiettivo di migliorare le loro prestazioni di nuoto, sebbene in grado di raggiungere velocità molto elevate, non sono capaci di raggiungere un’efficienza paragonabile alle loro controparti naturali. 

Per questo la ricerca si sta indirizzando sullo studio di quei pesci detti ‘nuotatori ondulatori’, come tonni e sgombri, che si muovono generando un’onda viaggiante lungo il corpo. Sono pesci che hanno una coda relativamente grande che viene utilizzata passivamente per nuotare rapidamente e/o in modo efficiente su lunghe distanze.

Sulla base di queste ricerche abbiamo quindi sviluppato una piattaforma robotica simile a un pesce (di 30 centimetri di lunghezza) dotata di una coda flessibile a rigidità controllata. Gli esperimenti condotti al canale di circolazione dell’INM per studiare e quantificare le prestazioni della coda flessibile e valutare il loro potenziale impatto sull’efficienza complessiva hanno dimostrato che la diversa rigidità della coda influenza la spinta e la potenza raggiunte dal nostro pesce-robot.”