Sistemi di stabilizzazione: da optional a standard di Lamberto Ballerini il 28 Feb 2022 Torna al sommario Che si tratti di pinne o di giroscopi o di cilindri rotanti, gli stabilizzatori sono entrati ormai nella rosa degli accessori pressoché irrinunciabili. E la loro evoluzione continua. Non è improbabile che l’ormai scontata presenza dello stabilizzatore nella lista degli optional proposti per una nuova imbarcazione traslochi presto in quella degli standard, cioè, in sostanza, tra le cose delle quali non si può fare a meno. È stato così – in un passato neppure così lontano – per il verricello salpancora elettrico, per il frigorifero, per il plotter e per tanti altri “oggetti” trasformatisi da semplici accessori a elementi fondamentali del sistema-barca. Per quanto sia estremamente utile in una moltitudine di situazioni, il flying-bridge è certamente un ambiente particolarmente sensibile ai movimenti oscillatori. Questa fase di passaggio è estremamente importante poiché se sul piano strettamente commerciale lascia ancora una possibilità di opzione all’armatore, tra il decidere se spendere o no una cifra considerevole per dotarsi di questo dispositivo, sul piano puramente tecnico delega completamente al cantiere la decisione sulla tipologia, sulle dimensioni e sul metodo di installazione. Meno male, aggiungiamo noi, poiché si tratta di un tema che richiede professionalità ed esperienza. Non a caso, il problema diventa particolarmente delicato quando l’adozione di questo sistema si inserisce in un programma di refitting, cioè quando si interviene su un’unità già navigante – spesso da parecchi anni – e le soluzioni, con tutti i loro pro e contro, possono essere diverse. Ma andiamo per ordine. Sommario Il comfortDai dislocanti ai planantiPinne elettricheGiroscopi a confrontoIl misterioso MagnusIl retrofittingE la vela?L’INDICE DEI PRODUTTORI Il comfort Non è arduo affermare che chi ha un atteggiamento scettico – se non addirittura avverso – nei confronti dei dispositivi di stabilizzazione non è mai stato su una barca che ne è provvista. Basta infatti poco per rendersi conto dell’eccezionale incremento di comfort derivante dal netto smorzamento, fin quasi al totale annullamento, dei movimenti oscillatori dello scafo in navigazione e in sosta. E non si dica che la cosa riguarda soltanto chi soffre il mal di mare, poiché risulta impagabile per chiunque il piacere di una cena in rada, magari sul flying-bridge (che è una sorta di amplificatore di quei movimenti oscillatori), con la barca ben stabile nonostante le onde di scia generate da chi entra ed esce senza troppa cura per il prossimo. Vabbè, lo avrete capito tra le righe: a modesto parere del sottoscritto, un sistema di stabilizzazione degno di questo nome non può che essere “zero speed”, cioè in grado di fare il suo dovere non soltanto in navigazione ma anche a motori spenti. Vale la pena di ricordare che, per quanto ormai diffuso e ritenuto generico, questo termine è addirittura un marchio registrato della Quantum Marine, una delle prime aziende al mondo ad aver intuito che la caratteristica della stabilizzazione a barca ferma sarebbe diventata un meraviglioso plus. Per tale motivo, alcuni suoi concorrenti hanno coniato altre definizioni – per la verità, meno popolari – come “at anchor” o “at rest”. Ma il significato è assolutamente lo stesso. Dai dislocanti ai plananti Non è errato affermare che il successo dei sistemi di stabilizzazione sia strettamente legato alla crescente diffusione dei motoryacht dislocanti, ritenuti, non sempre a ragione stavolta, come la categoria che meglio può trarne vantaggio. Chiariamo subito questo equivoco. Molti pensano che gli scafi “lenti” siano praticamente gli unici a soffrire del rollio, mentre gli scafi plananti ne sarebbero pressoché immuni. Ebbene, non è affatto così. Se è vero che la sezione tonda – tipica della carena dislocante – è, durante la navigazione, la più cedevole alle oscillazioni, è anche vero che la sezione a V – tipica delle carene plananti – risulta spesso, a barca ferma, la più fastidiosa. Senza tirare in ballo formule che potrebbero rendere l’argomento ostico, la spiegazione più semplice è che le due sezioni offrono, alle loro estremità, cioè ai lati, una risposta assai diversa. In quella zona, la carena dislocante è tondeggiante, dunque dotata di inapprezzabile portanza o, per dirla in termini ancor più semplici, di poco o inesistente appoggio sull’acqua. Una pinna del sistema ABT-Trac installato su uno scafo semidislocante Aleutian. Non possono sfuggire le vistose winglet che, poste alle estremità, ne migliorano sensibilmente l’efficienza. E’ anche grazie a soluzioni di questo tipo che le pinne riguardano ormai anche gli scafi plananti. Ciò significa che in navigazione, in presenza di una serie di sollecitazioni laterali (per esempio, un treno di onde al traverso), essa cede avviando il fenomeno cadenzato del rollio. La corrispondente zona di una carena planante è invece piatta e dotata di uno spigolo netto, spesso al culmine di un vero e proprio pattino. In velocità, ciò si traduce in un forte appoggio dinamico capace di produrre un energico effetto stabilizzante in senso trasversale, che inibisce l’insorgere di un vero e proprio rollio. Le parti tendono a invertirsi a barca ferma. Infatti, se ancoriamo le due diverse barche nello stesso specchio d’acqua, sottoponendole alle stesse sollecitazioni laterali, la dislocante avrà una risposta più dolce rispetto alla planante. Questo perché la forma tondeggiante della prima offre meno “presa” all’onda laterale, mentre lo spigolo/gradino della seconda costituisce un ottimo innesco per un rollio nervoso, caratterizzato da accelerazioni più accentuate. Ed è proprio su quest’ultimo particolare aspetto del moto oscillatorio – l’accelerazione – che si concentra l’attenzione dei fisiologi per spiegare il complesso meccanismo del mal di mare. Ci sono tuttavia altri due motivi tecnici per i quali gli stabilizzatori hanno trovato una prima e più ampia applicazione sugli scafi dislocanti: trattandosi originariamente di pinne attive, il loro posizionamento su una carena a sezione tondeggiante risultava decisamente meno problematico rispetto a quello su una carena a spigolo; inoltre, in termini puramente idrodinamici, gli attriti che derivavano dalla loro azione ne sconsigliavano l’installazione sugli scafi veloci. Stabilizzatore CMC Marine Da una parte, ciò ha aperto la strada agli stabilizzatori giroscopici, che operano completamente all’interno dello scafo e che, perciò, non influiscono sull’idrodinamica della carena; dall’altra, ha stimolato uno studio sui profili e sui meccanismi (compresi quelli di ritrazione) che ha permesso di portare l’efficienza delle pinne al punto tale da costituire una possibilità di scelta anche per gli scafi ad alte prestazioni. Interessante, per esempio, l’introduzione delle winglet che l’americana ABT-Trac (azienda nell’orbita dell’italiana Saim) ha riportato dal campo aeronautico, dove la presenza di queste speciali sporgenze alle estremità delle ali permette un drastico abbattimento dei vortici marginali, che sono la principale causa di attrito. Lo stesso dicasi per la raffinata sperimentazione e i continui perfezionamenti condotti dalla Naiad Dynamics, che vanta oltre 10.000 installazioni su unità di ogni parte del mondo. Perciò, anche se può suonare un po’ forzatamente diplomatico, oggi non si può affermare a priori che un sistema sia indiscutibilmente migliore dell’altro. Pinne elettriche Oltre al fondamentale passaggio dalle pinne tradizionali a quelle “zero speed”, dovuto allo studio di nuove forme idrodinamiche e/o di più complessi meccanismi di movimento governati da raffinati complessi hardware/software che riescono a contrastare le forze di natura inerziale e quelle di natura idrodinamica, un ulteriore passo tecnologico si è avuto con l’adozione degli attuatori elettrici al posto di quelli meccanici e/o oleodinamici. I risultati sul piano pratico possono essere riassunti nella maggiore compattezza del complesso, nel contenimento del peso, nella minore rumorosità, nell’eliminazione della centralina idraulica e delle relative tubazioni e, soprattutto, nella risposta più rapida. Grazie a quest’ultima, infatti, è possibile utilizzare algoritmi di controllo che consentono una maggiore precisione e, perciò, un migliore effetto stabilizzante. Si pensi che, nel caso degli stabilizzatori dell’italiana CMC Marine, si parla di rotazioni di ben 110 gradi al secondo che permettono di adottare pinne più piccole e, quindi, di contenere sensibilmente la resistenza idrodinamica. Interessante in tal senso, il sistema elettrico integrato messo a punto dalla svedese Humphree, che combina l’azione delle pinne zero speed con quella degli interceptor, i quali, svolgendo com’è noto una funzione analoga a quella dei flap, in navigazione compensano il beccheggio e, potendo lavorare altrettanto rapidamente in modo indipendente, concorrono anche a smorzare il rollio. Sebbene siano comparsi nel mondo del diporto alquanto recentemente, i sistemi di stabilizzazione giroscopici hanno una lunga storia. Qui a fianco, due dei tre enormi dispositivi installati nel 1932 a bordo del transatlantico Conte di Savoia. Alcuni problemi tecnici ne limitarono il successo. Chi si preoccupa per l’eventualità che, urtando in piena velocità contro ostacoli, le pinne possano aprire falle in carena, tenga conto che ormai tutti i produttori adottano soluzioni progettuali che impediscono danni del genere. Piuttosto, l’unico limite degli attuatori elettrici è rappresentato dalla loro soglia di potenza, fatto, questo, che rende tuttora insostituibili i sistemi meccanici/oleodinamici per le grandi navi. È il motivo per il quale la già nominata Quantum, che dedica i suoi prodotti soprattutto a unità di lunghezza compresa fra i 35 e i 200 metri, continua ad affidarsi agli impianti idraulici che, tra centraline, serbatoi e pompe, possono gestire anche altre utenze di bordo. Ricordiamo le sue XT retrattili e, soprattutto, le sue rivoluzionarie Dyna-Foil che, oltre ad essere retrattili, riescono a potenziare il loro effetto stabilizzante grazie alla doppia libertà di movimento delle sue pinne. Non c’è alcun dubbio che una carta vincente del sistema giroscopico sia rappresentata dalla sua compattezza generale. Nella foto il più piccolo Seakeeper installato nel gavone di un walkaround di 7 metri. Giroscopi a confronto Sebbene non si tratti in assoluto di una nuova invenzione – basti pensare, alla loro applicazione sul transatlantico Conte di Savoia, nel 1932 – gli stabilizzatori giroscopici hanno in qualche modo rivoluzionato il mondo del diporto, soprattutto perché si sono dimostrati facilmente applicabili anche su barche di dimensioni contenute. Infatti, grazie alle moderne tecnologie, si è passati dalle imponenti masse dei primi dispositivi all’estrema compattezza di quelli attuali, che tuttavia, seguono filosofie diverse. Facciamo qualche esempio. L’americana Seakeeper, leader assoluta del settore specifico, con oltre 250 cantieri che montano i suoi dispositivi come standard, punta sull’estrema velocità di rotazione di un volano relativamente “leggero” (in alcuni casi si sfiorano i 10.000 giri al minuto), ottenibile grazie al fatto che esso lavora in un ambiente sottovuoto, perciò con attriti assai ridotti, minimo surriscaldamento, nessuna contaminazione dagli agenti esterni in termini di corrosione, contenimento del consumo di energia elettrica, manutenzione estremamente ridotta. Composta da 10 modelli, la sua gamma parte dal Seakeeper 1 che, destinato a piccoli natanti, pesa 165 kg, misura 58 x 59 x 39 cm, ha un regime nominale di 9.750 giri/minuto, entra a regime minimo funzionale (il cosiddetto spool-up) in 15 minuti ed è alimentato a 12 V in corrente continua. Il modello maggiore è il 35, destinato a unità di lunghezza oltre gli 85 piedi: pesa 1.778 kg, misura 1,3 x 1,4 x 1,0 metri, ha un regime nominale di 5.150 giri/minuto, entra a regime minimo funzionale in 64 minuti ed è alimentato a 24 VDC/220 VAC. Ciascuna tipologia di stabilizzazione continua a progredire. In alto, il giroscopio Quick ad asse orizzontale. Analoga la filosofia seguita dall’italiana Smart Gyro, in partnership con la giapponese Yanmar, per una gamma di 4 stabilizzatori che è più orientata alle imbarcazioni di lunghezza media. Anche in questo caso si tratta di volani ad alta velocità che lavorano in ambiente sottovuoto, con la speciale caratteristica di una costruzione che privilegia tutte le operazioni di montaggio, smontaggio e manutenzione a bordo, cosa che risulta particolarmente importante quando l’installazione si svolge nell’ambito di un refitting. Il modello base è l’SG20 che, destinato a imbarcazioni da 45-55 piedi, pesa 495 kg, misura 64 x 75 x 77 cm, ha un regime nominale di 9.500 giri/minuto, entra a regime minimo funzionale in 25 minuti ed è alimentato a 12VDC/220VAC; il modello maggiore, l’SG80, è destinato a imbarcazioni da 60-70 piedi, pesa 980 kg, misura 0,87 x 1,09 x 1,11 metri, ha un regime nominale di 5.500 giri/minuto, entra a regime funzionale in 25 minuti ed è alimentato a 12VDC/220VAC. Un cilindro rotante Dynamic a controllo computerizzato. In direzione pressoché opposta, l’italiana Quick punta invece su un volano che, grazie al fatto di ruotare intorno a un asse orizzontale, può essere di massa superiore e girare a regimi inferiori, cosa che sottopone il complesso a un minore stress meccanico e consente di adottare un sistema di raffreddamento ad aria che non soffre di quei problemi di sporcizia – e di conseguente malfunzionamento – che possono invece presentarsi nei sistemi raffreddati ad acqua. Anche in questo caso, diamo un’idea dell’estensione della gamma, che è composta da 17 modelli: il più piccolo è l’MC2 X2 DC che, destinato a piccoli natanti, pesa appena 130 kg, misura 48 x 42 x 42 cm, ha un regime nominale di 6.000 giri/minuto, entra a regime minimo funzionale in 8 minuti ed è alimentato a 12 VDC; il più grande, l’MC2 X75 da poco entrato in produzione, pesa 2.200 kg, misura 1,0 x 0,95 x 0,95 metri, ha un regime nominale di 4.000 giri/minuto, entra a regime minimo funzionale in 30 minuti ed è alimentato a 380 VAC 3F. L’installazione di un sistema di stabilizzazione su una barca già navigante può comportare lavori di rinforzo, come nel caso di questo scafo in acciaio. Il misterioso Magnus Avete presente quei tiri di punizione che, nel gioco del calcio, aggirano curvando la barriera difensiva e fanno sì che la palla si infili in un angolo irraggiungibile della porta? Bene, i campioni capaci di queste raffinatezze non lo sanno ma, in realtà, non fanno altro che sfruttare il cosiddetto “effetto Magnus”, dal nome del fisico Heinrich Gustav Magnus che, intorno alla metà dell’800, spiegò il fenomeno per il quale un corpo rotante in un fluido in movimento subisce una variazione di traiettoria. Ebbene, è esattamente su questo stesso effetto che si basa il funzionamento degli stabilizzatori a cilindri rotanti. Assai meno conosciuti dei loro concorrenti, sebbene presenti sul mercato da molti anni, essi godono comunque di grande apprezzamento da parte dei loro utilizzatori. Il sistema si compone di due bracci costituiti da barre cilindriche che ruotano su stesse ad alta velocità e che possono essere orientate sul piano orizzontale per mezzo di un controllo idraulico o elettrico. La prima soluzione è quella adottata dalla già nominata Quantum Marine per la sua linea Maglift; la seconda è quella adottata dalla DMS Holland per la sua linea RotorSwing. In pratica stiamo parlando di un vero e proprio duopolio e, in entrambi i casi, i vantaggi dichiarati sono notevoli: ottima capacità stabilizzatrice del rollio (soprattutto alle basse velocità e a barca ferma) e, in parte, del beccheggio; retraibilità all’interno della carena; peso e ingombro relativamente contenuti. Nonostante ciò, almeno per il momento, il mercato non se n’è innamorato. Non molto dibattuto, per la verità, il tema dell’applicazione degli stabilizzatori sulle barche a vela riguarda soprattutto le soste in rada. Pochi ma importanti gli esempi di installazioni già realizzate. Il retrofitting I motivi per i quali l’idea di installare uno stabilizzatore viene a barca già costruita e navigante possono essere diversi. Innanzi tutto, può darsi che quella barca sia stata costruita in un periodo in cui questi dispositivi erano praticamente sconosciuti e non se ne sentiva il bisogno. Per non parlare di quando l’armatore alle prime armi scopre tardivamente che qualcuno della sua famiglia soffre tremendamente il mal di mare. In ogni caso, di fronte all’ipotesi dell’installazione, le domande sono sempre soltanto due: è possibile? È conveniente? Per quanto riguarda il primo aspetto, una risposta può essere formulata soltanto a seguito di un’approfondita indagine tecnica che sia in grado di affrontare tre fondamentali problematiche: spazio utilizzabile all’interno dello scafo, possibilità di interventi sulla struttura, energia elettrica disponibile. Le prime due sono strettamente interdipendenti, in quanto non si tratta soltanto di poter disporre del volume destinato a ospitare i vari elementi interni del sistema, ma anche di poter sviluppare una struttura di rinforzo che, partendo da quella esistente, permetta allo scafo di assorbire tranquillamente le nuove sollecitazioni imposte dagli stabilizzatori. Sotto questo particolare profilo, le imbarcazioni di metallo (acciaio e lega leggera) si trovano avvantaggiate grazie soprattutto alla possibilità di eseguire saldature semplici e affidabili. Per quanto concerne la disponibilità di energia elettrica, si tratta di stabilire se il generatore esistente sia in grado di soddisfare la richiesta del sistema antirollio che si intende installare oppure se, com’è più probabile, sia necessario ricorrere a un generatore più potente o a uno aggiuntivo. Da questo complesso di valutazioni origina il preventivo di spesa che varia a seconda della marca e del modello degli stabilizzatori e, in una certa misura, anche a seconda dell’installatore. Complessivamente più semplice è l’installazione di uno stabilizzatore giroscopico, in quanto non presenta elementi passanti e quasi tutto il complesso è racchiuso in un unico contenitore che può essere posizionato praticamente in qualsiasi punto della sala macchine (preferibile perché già dotata di un sistema di insonorizzazione) se non addirittura, almeno in teoria, in qualsiasi altro punto dell’imbarcazione. Ciò non significa, tuttavia, che non si debba quantomeno ipotizzare un lavoro di consolidamento analogo a quello delle pinne attive, poiché l’effetto di stabilizzazione generato dal sistema giroscopico sottopone anch’esso parti dello scafo a sollecitazioni. E la vela? Questa è davvero una bella domanda, poiché addirittura sembra toccare un tabù basato sull’assurdo principio che la barca a vela “deve” essere scomoda in tutto e per tutto. Ebbene, qualche esempio di installazione su barche di una certa importanza non manca: per esempio il sistema a pinne retrattili realizzato da Naiad, in collaborazione con l’architetto William L. Blake, per un ketch di 35 metri costruito da Sparkman & Stephens o il più complesso sistema a 4 pinne che sempre Naiad ha installato su un motorsailer di 93 metri costruito da Lürssen. Vero è che si tratta pur sempre di una nicchia – quella dei superyacht – e che la mancanza di una letteratura tecnica riguardante questa specifica applicazione non invoglia ad approfondire l’esperienza. Peccato perché, alla luce dei sistemi più attuali, la sperimentazione potrebbe coinvolgere barche a vela di dimensioni nettamente inferiori. L’INDICE DEI PRODUTTORI Per non far torto a chi, per semplici motivi di trattazione, non è stato nominato nel testo dell’articolo, riportiamo qui di seguito, in ordine alfabetico, i nomi dei più importanti produttori di sistemi di stabilizzazione. ABT-Trac CMC/Waveless DMS Holland Geps Humphree Hydrosta Kobelt Matn’s Naiad Orbit Gyro Quantum Marine Quick Side-Power Simplex Smart Gyro Veem Vetus Wesmar<p style=”text-align: center;”>Scarica pdf Nautica Marzo 2022</p> Questo articolo ti è piaciuto? Condividilo!