Restaurare una barca d’epoca di Elena Casillo il 5 Lug 2017 Definire quale barca sia da considerarsi d’epoca non è facile: è quella che ha più di venticinque o più di trent’anni? E se è stata rimaneggiata profondamente, è ancora da considerarsi d’epoca? E chi stabilisce e definisce il grado di rimaneggiamento o di trasformazione, stabilendo così se la barca è d’epoca o no? In realtà, il termine “barca d’epoca” è solo una definizione soggettiva, mancando una definizione derivante da legge o almeno da consuetudine, così come anche, ad esempio, avviene per il termine “motorsailer”: la legge italiana stabilisce quando l’imbarcazione è a vela (con o senza motore ausiliario) e quando invece è a motore (con o senza vela ausiliaria), ma non prevede il motorsailer, genericamente e abitualmente indicato come un’imbarcazione in cui motore e vela hanno uguale importanza ai fini propulsivi. Si capisce subito quanto la parola “motorsailer” sia vaga, dipendendo dalla superficie velica, dalle forme di carena, dalla capacità di stringere il vento, dalle forme e dalle dimensioni degli interni e della tuga e via dicendo. Siamo nel vago. Così avviene anche per il termine “barche d’epoca”, variamente interpretato dai proprietari, dal cantiere, dai progettisti, dall’ASDEC, dall’AIVE e dalle altre associazioni di proprietari di barche, dagli organizzatori dei raduni, dai broker. A essere pignoli, che differenza ci può essere, in tanti casi, tra la barca classica, quella d’epoca, quella tradizionale e quella semplicemente vecchia? In pratica oggi abbiamo due correnti di pensiero per la definizione della barca, come “d’epoca”: da una parte c’è chi sostiene che è sufficiente che resti un solo chiodo per dire che la barca è d’epoca, mentre gli integralisti sono di avviso assolutamente contrario, non ritenendo ammissibili variazioni o ricostruzioni, se non nomine. Non volendo entrare nel merito della questione, parlerò genericamente di barche d’epoca o classiche, senza distinzioni o preclusioni. Che le barche d’epoca siano di moda è evidente: le riviste nautiche ne parlano, i broker le cercano e gli appassionati pure, mentre quotidiani e periodici intervistano volentieri famosi personaggi, fotografati a bordo dei loro preziosi velieri, trovati in un angolo di fiume, buttati da una parte, ma riconosciuti, armati e portati in Italia per il “restauro”. Questo interesse è esploso abbastanza recentemente, se si considera che, fino a una decina d’anni fa, i capannoni erano pieni di barche di legno che ormai non voleva più nessuno e sembravano destinate ad una lenta agonia o alla demolizione. Ma viviamo nell’epoca del consumismo: la barca in vetroresina è ormai stata accettata, è diffusissima, non ha più segreti e soprattutto viene costruita in serie, per cui anche quella più raffinata e costosa diventa un oggetto che chiunque – si fa per dire – può avere. E allora come ci si può distinguere dalle masse che hanno riempito i porti di barche di plastica così simili tra loro, per non dire uguali o copiate? C’è solo un sistema: cercare il pezzo unico che non ha nessuno, ossia la barca in legno, anche se vecchia, malconcia o addirittura semidistrutta o rimaneggiata oltre i limiti del buon gusto. Va tutto bene, purché sia unica e di conseguenza diversa dalle altre. Ma questa fissazione per la barca classica è moda, è passione, è snobismo o è solo il desiderio degli ultimi arrivati nella nautica per farsi una nobiltà o un nome che magari hanno già in altri campi? A ben guardare, tra i proprietari di questo tipo di imbarcazioni c’è veramente di tutto: lo studente senza soldi che vuole andare per mare con gli amici, l’industriale miliardario che vuole fare vedere a tutti che sa stare al timone di una barca, oltre che al timone del suo impero commerciale, il parvenu che vuole ostentare il suo potere economico e il vecchio appassionato che ha la barca fin dalla nascita ed è un vero intenditore. Ognuno fa un uso diverso dalla sua barca: c’è chi la usa sul serio, c’è chi non ci va mai e la noleggia, c’è chi mette piede a bordo solo in occasione del varo o quando ci sono dei fotografi convocati per l’occasione e sempre con la poppa in banchina, c’è chi vive a bordo e fa piano piano il giro del Mediterraneo, chi ci va in America e chi resta a Portofino o a Porto Cervo tutto l’anno. Nulla accomuna tutti questi personaggi, se non il fatto di possedere una barca diversa dalle altre, e nulla accomuna le barche, se non il fatto di avere una certa età: si trovano infatti derive e barche da regata storiche come il Dinghy 12 piedi S.I., il Dragone, il Requin o la classe U., classi metriche da regata come il 5,50 S.I., i 6 e gli 8 metri, barche della classe J, lunghe più di 30 metri, barche da lavoro a vela o a motore, motoscafi e tante altre ancora. Insomma tutta una flotta eterogenea e multiforme di barche in legno, in acciaio, a struttura mista legno e acciaio, a vela e a motore, di cantiere famoso o senza pedigree. Ben diverse sono anche le condizioni in cui una barca d’epoca si può trovare, perché si va dalla barca completamente abbandonata, se non addirittura affondata, alla barca tenuta in perfetto stato da proprietari scrupolosi: tra questi due estremi si trova tutta una gamma di imbarcazioni che finiscono comunque tutte con l’avere in comune la necessità di essere rimesse in perfette condizioni. Ed ecco che nasce il problema del restauro, anche se sarebbe più logico differenziare l’intervento su una barca: infatti si può presentare la necessità dei soli interventi di manutenzione ordinari e straordinari, o di riparazione, o di ricostruzione o di trasformazione. Ometto di parlare degli interventi deturpanti, perché abbiamo già troppi cattivi esempi davanti agli occhi girando per i porti. Data dunque la necessità di intervenire su barche costruite decine di anni fa e che possono risalire agli inizi del novecento, se non al secolo scorso, ci si trova di fronte ad alcune possibilità di scelta: rivolgersi a un piccolo cantiere artigianale, tradizionale costruttore, teoricamente più economico, di barche da lavoro o portare la barca in un cantiere più noto e costoso di riparazione di barche da diporto? O meglio: conviene rivolgersi a un cantiere di riparazione o a uno di restauro? Le differenze sono molte: un cantiere di riparazione è in grado di intervenire su qualsiasi parte di una barca classica, ma molte volte non ha il rispetto dovuto alle tecniche costruttive impiegate nella costruzione della barca che ci interessa, mentre un cantiere di restauro – e sono pochissimi in Italia – ha una grande preparazione, direi storica e culturale, su ogni tipo di costruzione tradizionale. Vero restauratore è colui che conosce i metodi costruttivi, i materiali impiegati, le caratteristiche tecniche degli scafi, delle attrezzature, delle vele, delle imbarcazioni da diporto delle epoche passate, mentre il riparatore è colui che normalmente lavora sulle barche recenti, per le quali non è richiesta sensibilità storica e rispetto della tradizione. Cantieri di riparazione e di costruzione in Italia ce ne sono alcune decine, mentre i cantieri in grado di intervenire profondamente su una barca storica per operazioni di restauro o ricostruzione sono molto pochi: tra questi ricorderò, ad esempio, Carlini di Rimini, De Cesari di Cervia, Bertolucci di Viareggio, Morri e Parra di Viserba, Valdettaro di La Spezia, il Cantiere Navale dell’Argentario di Porto S. Stefano, Mostes di Genova Pra, Sangermani di Lavagna e Beconcini di La Spezia. Questi cantieri sono tutti validi ma non hanno le stesse capacità di intervento: ce ne sono di quelli che restaurano una barca all’anno o anche più di rado, altri per i quali il restauro è un fatto occasionale, data anche la ristrettezza dei necessari spazi coperti disponibili, mentre il numero dei cantieri che intervengono continuamente su barche d’epoca è abbastanza ristretto: tra questi il Cantiere Navale dell’Argentario, Mostes, Sangermani e Beconcini, cantiere che ho visitato recentemente per fare il punto sui maggiori cantieri del restauro in Italia. Sommario Il Cantiere Navale dell’ArgentarioCantiere MostesCantiere SangermaniCantieri Navali Beconcini Il Cantiere Navale dell’Argentario Fondato nel 1946, iniziò l’attività con la riparazione dei pescherecci; successivamente il cantiere si specializzò negli interventi su barche da diporto anche di grosse dimensioni, grazie al fatto che era uno dei pochi ad avere uno scalo d’alaggio a carrello in grado di muovere barche fino a 400 tonnellate di dislocamento e grazie anche ad una mano d’opera molto esperta, dato che Porto S.Stefano, dove si trova il cantiere, è un centro nautico di prim’ordine da tantissimi anni. Il cantiere dispone anche di due gru e di due capannoni, oltre che di una banchina e di uno spazio all’aperto. La limitatezza degli spazi è sempre stato un vincolo per questo cantiere che, in pratica, si trova compresso nella città di Porto S.Stefano e non ha modo di espandersi. A terra e ai lavori si trovano in media una decina di barche anche di grosse dimensioni; i dipendenti sono trentacinque e, come in ogni cantiere, si fa ricorso a ditte esterne solo per interventi radicali sugli impianti elettrici, sui motori o sulle vele, mentre il resto viene tutto eseguito in cantiere. È decisamente un cantiere tradizionale con un’atmosfera un pò fuori dal tempo: capannoni in penombra, banchi da falegname con molti macchinari moderni, ma con una gran quantità di attrezzi manuali, rastrelliera con alberi, boma e picchi di barche di cui si è ormai persa la memoria e ovunque vecchie attrezzature, legni pregiati e ferramenta d’ottone cromato o di ferro zincato. Questo cantiere, col passare degli anni, ha restaurato barche famose, come l'”Altair” il “Fleurtje”, un cabinato a vela di 50 metri a tre alberi, l’ “Alshain”, un motoryacht di 34 metri. Tra le barche più belle non si può dimenticare il “Sea Gipsy”, una goletta progettata da John Alden nel 1929 e rimasta per diverso tempo in cantiere, “Aline”, un motoryacht di 25 metri del cantiere Benetti e più recentemente “Cheone”, una barca di 52 anni, che sta per iniziare il giro del mondo. Ricordo ancora il “Nerissa”, un bellissimo cutter inglese dalle linee meravigliose che fu del Conte Marone Cinzano, e ricordo il “Puritan”, “Valdivia”, “El Chico”, “San Francesco”, “Aurora” e “Dolphin”. Tutte barche d’epoca, alcune delle quali bellissime che abbastanza spesso tornano in cantiere per la manutenzione o per passare l’inverno. In questo momento il cantiere sta intervenendo per lavori di riparazione e manutenzione su diverse barche di famosi cantieri, mentre in corso di ristrutturazione completa c’è un Benetti 25. Cantiere Mostes Luigi Mostes, titolare del cantiere, appartiene ad una dinastia di costruttori di imbarcazioni da diporto: suo padre lasciò il natio Lago di Como per andare a lavorare nel cantiere Baglietto e, in seguito, mise su il proprio cantiere, dapprima a Sturla, poi a Recco, poi nell’attuale sede di Prà, vicino a Genova. Il cantiere è costituito da due capannoni, da una tettoia e da uno spiazzo all’aperto, servito da uno scalo d’alaggio che può alare barche fino a 25 metri. I dipendenti sono tredici e nel cantiere lavora anche Alessandro Mostes, figlio del titolare, che prosegue la tradizione di questa famiglia di vecchi costruttori che hanno ancora tre altri cantieri sulle rive de Lago di Como. Il cantiere, ora compreso nel nuovo porto di Genova Voltri, è tipicamente artigianale, anche considerando le misure limitate degli spazi disponibili sotto capannone: non è possibile intervenire su più di cinque/sei barche contemporaneamente dato anche il basso numero dei dipendenti. Il cantiere si dedica alla riparazione, al restauro, soprattutto delle barche costruite dallo stesso cantiere negli anni passati e alla costruzione in legno. Tra le barche in restauro attualmente c’è “Amadeus”, ex “Vea”, costruito nel 1960 del cantiere Beltrame di Genova Sturla. Sono in ricostruzione gli interni e presumibilmente presto anche la coperta di questa bellissima barca a vela tutta di mogano e teak. Una nota interessante: Luigi Mostes è un’appassionato di storia della costruzione ed il suo cantiere è stato prescelto per la realizzazione della “Nina”, la caravella di Colombo che verrà ricostruita, in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America, sulla base delle ricerche fatte dal Signor Mostes e da altri. Questo è un vero riconoscimento per la passione e la cultura che si respira in questo cantiere in fatto di costruzione classica. Cantiere Sangermani Dal 1946 a Lavagna, questo cantiere esiste in realtà da più di cento anni ed è conosciuto in tutto il mondo per le sue eleganti imbarcazioni da diporto, normalmente progettate da grandi architetti navali come Sparkman e Stephens, Giles, Franco Anselmi Boretti o dagli stessi Sangermani. Titolare è Cesare Sangermani, coadiuvato da Pino Persoglio, a capo di una cinquantina di artigiani bravissimi; il cantiere dispone di ogni mezzo per il sollevamento e l’alaggio di imbarcazioni anche di grandi dimensioni. Ha una superficie all’aperto di 5.000 metri quadri e al coperto di altrettanto, divisi in più capannoni contigui, nei quali si trovano sempre in costruzione o in riparazione barche lunghe più di 20 metri. Questo cantiere, grazie alle tradizioni familiari e alla mano d’opera che viene lentamente e faticosamente istruita e tramandata da sempre, è conosciuto anche per i restauri di imbarcazioni famose, soprattutto di quelle costruite dal cantiere stesso. Cesare Sangermani infatti non nasconde la simpatia che ha per le sue barche e per quelle fatte dal padre e dallo zio, che periodicamente gli vengono affidate per ricostruzioni più o meno estese. Naturalmente in cantiere si trovano barche fatte da altri famosi costruttori, ma a Sangermani si rivolgono soprattutto i proprietari di barche nate lì, sapendo che questo costituisce un biglietto da visita e una garanzia che pochi costruttori possono dare. In questo momento Sangermani sta ristrutturando “Emi”, varata nel 1954, uno sloop lungo quasi 27 metri, al quale è stato ripreso il fasciame, insieme ad interventi agli interni e alla coperta. Nei programmi del cantiere c’è in primo posto la costruzione di nuove barche a vela e a motore, sempre rigorosamente in legno, che qui viene studiato e applicato in modi tradizionali ma secondo tecnologie modernissime. Insomma in questo cantiere si respira polvere di teak e di mogano, le essenze da sempre preferite dalla dinastia Sangermani, splendide e durevoli. Cantieri Navali Beconcini Questo cantiere è unico perché non costruisce, ma restaura soltanto barche d’epoca, le ricostruisce se necessario e le mantiene, con una serietà ed una preparazione storica e tecnica al più alto livello. Visitare il cantiere Beconcini è un piacere perché vi si trovano le più belle barche d’Europa, alcune delle quali appartenute a personaggi famosi, moltissime dotate di un lungo pedigree e soprattutto di grande bellezza. Il cantiere, che ha una quarantina di dipendenti, si è recentemente trasferito nella nuova sede nel Golfo de La Spezia; ha una superficie – enorme, per la nautica – di 30.000 metri quadri, di cui 4.500 già coperti da grandissimi capannoni e altri 3.000 in via di copertura. I proprietari del cantiere sono due fratelli, Angelo e Giancarlo Beconcini, e il loro cugino Pier Giorgio Beconcini, mentre direttore del cantiere, da più di 13 anni, è Eugenio Moretti: tutti appassionati di barche d’epoca oltre il pensabile, così come gli artigiani che lavorano in cantiere, con i quali ho avuto dei simpatici colloqui dai quali sono emerse figure di carpentieri, di falegnami, di attrezzatori e di verniciatori preparatissimi e innamorati del loro lavoro, che ricordano tutte le barche passate per il cantiere con i loro pregi e i loro difetti. Come dicevo prima, questo cantiere è l’unico in Italia che si interessi esclusivamente del restauro di barche d’epoca, tra le quali bisogna ricordare la goletta a palo “Croce del Sud”, lunga 37,70 metri, costruita nei cantieri Martinoli di Lussinpiccolo nel 1931, da allora sempre di proprietà della stessa famiglia. Le barche da ricordare sono tante: “Mariette”, goletta disegnata da Herreshoff nel 1913, lunga 33 metri, “Shaula”, un Camper e Nicholson del 1925, lungo 23 metri; l’ “Astra”, un classe J del 1928, costruito da Camper e Nicholson e ricostruito da Beconcini anni fa con trentacinquemila ore di lavoro, tutte barche attualmente in cantiere per gli interventi di ordinaria manutenzione invernale, così come la “Skagerrak”, costruito nel 1938 per Goering, e il “Cariba”, un ketch francese costruito nel 1930. Tra i restauri famosi, “Silvia,” un motorsailer del 1925 di Camper e Nicholson lungo 37 metri, e il “Tomahawk”, un 12 metri S.I., costruito nel 1939, sempre da Camper a Nicholson, lungo 21,20 metri, già appartenuto anche a Gianni Agnelli. Attualmente sono in corso interventi di restauro e riparazione su “Norlanda”, ex “Candida”, un ex classe J, mentre il fiore all’occhiello del cantiere ora è il “Lulworth”, una gigantesca barca a vela inglese di quasi 40 metri che verrà ricostruita quasi completamente. Come si vede, non manca certo il lavoro a questo cantiere, conosciuto in tutto il mondo per l’altissima qualità della sua opera, che lo pone ai massimi livelli mondiali, e per il quale Angelo Beconcini prevede grandi possibilità future, data la quantità di barche d’epoca famose che trovano ricovero da lui per interventi più o meno radicali. I problemi del restauro sono molti: innanzitutto difficoltà di trovare barche interessanti e degne di essere restaurate, difficoltà di trasporto della barca fino al cantiere di restauro, gravosità e, talora, pratica impossibilità di reperire disegni originali o informazioni sull’oggetto da ricostruire, scarsezza delle essenze di legno giuste per intervenire e, non ultima, la necessità di prevedere spese che possono arrivare ad alcuni miliardi; non va dimenticato inoltre che i cantieri in grado di fare interventi estesi su barche d’epoca, come ho detto prima, sono pochi, e quei pochi sono sempre impegnati, per cui non si può pensare che una barca affondata nel fango possa essere ricostruita quasi completamente e tornare agli antichi splendori nel giro di pochi mesi. Nel settore del restauro, soprattutto in quello delle barche di grandi dimensioni, come i 12 metri S.I. e i classe J, tutto assume dimensioni impensabili: spessore dei fasciami, dimensioni delle chiglie, cubatura di legname pregiato per fare coperte ed interni, alberi che superano facilmente i 40 metri di altezza, bozzelli di legno che pesano come un bambino, cavi d’acciaio di enorme sezione e, alla fine, conti da capogiro. Naturalmente, quando si tratta di intervenire su grandi barche, è evidente che anche i costi di intervento saranno grandi e, oltre tutto, non preventivabili. Questa è infatti una caratteristica delle grosse opere di restauro: normalmente il cantiere non vuole – giustamente – dare al cliente neanche un’idea vaga e preventiva delle spese da sostenere, dato che le difficoltà e la durata di questi particolari tipi di intervento non permettono neanche di poterne indicare la durata. Ecco perché operazioni del genere non sono alla portata di tutti, proprio per l’impossibilità di preventivare la spesa finale; il proprietario di una barca che invece deve stare attento al budget preventivato di spesa non può mettersi in questa impresa, perché, come capita spesso, i lavori si fermerebbero già all’inizio. Ho molti casi del genere di fronte agli occhi: impiegati che trovano una vecchio barca di legno e cercano di restaurarla da soli, senza averne minimamente i mezzi economici e la capacità tecnica, appassionati e sognatori che prendono barche a vela malandate e si affidano a cantierini artigianali abituati a riparare gozzi o a falegnami che non ricordano neanche più come si fa un incastro a coda di rondine, professionisti simpatici ma poco pratici che si innamorano – ad esempio – di un vecchio 8 metri S.I., ma non hanno i soldi per intraprendere il restauro e sono alla perenne ricerca di uno sponsor. Tralascio questi casi perchè sporadici e, soprattutto poco concludenti da un punto di vista qualitativo della trasformazione, fino ad arrivare alle “trasformazioni” di splendide barche da regata di una volta, deturpate da tughe enormi tipo cabina del telefono, da alberi d’alluminio, da inutili bompressi con sottostante rete degna dell'”Amerigo Vespucci”. Cerco soprattutto di dimenticare i cantieri o certi privati che, preso un vecchio peschereccio, si affannano a trasformarlo in quello che non è mai stato, cioè un glorioso veliero provvisto di vele quadre, di polena, di improbabili e mai funzionanti attrezzature auriche, di pulpiti fatti con colonnine tornite, di interni da incubo e di ogni accessorio che trasforma una barca da lavoro in un collage di pessimo gusto. Per tornare al problema base, non va dimenticato che il restauro è un’operazione complessa e costosa e che richiede una grande preparazione storica, culturale, tecnologica e di navigazione a tutti coloro che vi partecipano: all’armatore, ai progettisti, al cantiere, all’attrezzatore, ai carpentieri e a tutti coloro che devono ricostruire una barca in tutti i suoi particolari, rispettandone l’origine, ossia cercando di ricostruire fedelmente la barca, così come nacque o come successivamente alla costruzione fu ridisegnata e allestita. Eccoci arrivati al punto dolente del restauro in Italia: mentre all’estero, ad esempio in Inghilterra, dove la tradizione nautica ha lontane radici, il restauro, anche di barche molto piccole, fino alle derive, è inteso a ricostruire fedelmente la barca nei suoi particolari come era al momento del primo varo, in Italia si ha più la tendenza a ricostruire scafo, coperta e sovrastrutture come in origine, intervenendo però anche pesantemente sulle attrezzature e gli accessori di coperta, sugli interni e sui particolari costruttivi. Per i cantieri di restauro questa è una croce e tutti quelli con i quali ho parlato nel corso di questa mia indagine me l’hanno confermato: il proprietario della barca da restaurare vuole sì che la barca torni agli antichi fasti, ma vuole anche renderla comoda, pratica, maneggevole e soprattutto utilizzabile con un equipaggio ridotto a due o tre persone: risultato è che, su barche dei primi del secolo, si vedono bellissime coperte in teck con enormi verricelli e salpancore elettrici, alberi e boma in lega leggera di disegno moderno, impiombature Norseman, radar e strumenti elettronici bene in vista e via dicendo. Insomma oggi l’armatore tipo, data la mancanza di validi equipaggi e dato soprattutto il loro costo annuale preferisce meccanizzare tutto col risultato che molte, troppe bellissime barche d’epoca di originale, come progetto o come materiali, hanno ben poco. Distinguiamo per un’attimo, come fanno sempre i restauratori di imbarcazioni classiche, il problema progettuale dal problema costruttivo: le tecniche costruttive e i materiali devono in ogni caso essere quelli dell’epoca, a meno che non si siano dimostrati insufficienti o inadatti, e la progettazione deve rispecchiare fedelmente il progetto originale, mentre accessori e dotazioni purtroppo spesso devono essere ammodernati. È evidente che il progettista incaricato della studio di restauro o ricostruzione deve riuscire a mettere in barca tutti quegli impianti che una volta non c’erano e che oggi sono più o meno necessari: desalinizzatori, gruppi elettrogeni, impianti di riscaldamento, impianti elettrici estesi, strumentazione elettronica, ecc. Tutti questi accessori e impianti vengono messi in sentina nei vari gavoni della barca, soprattutto a poppa e nascosti ovunque possibile, col risultato che spesso una barca restaurata è talmente piena di cavi elettrici, tubi, serbatoi e così via, da non essere più ispezionabile nei punti vitali. Ma questo non avveniva all’epoca d’oro della costruzione in legno, perché allora le sentine in genere erano vuote, accessibili, lavabili e soprattutto ispezionabili; altrettanto dicasi delle sezioni poppiere delle barche, nei cui gavoni si poteva tranquillamente entrare per controllare periodicamente lo stato del fasciame, delle strutture, delle zone intorno alle lande e nello specchio di poppa. Ogni parte dell’imbarcazione era pensata per durare nel tempo – salvo rari casi di barche da regata – e come tale doveva essere sgombra e ventilata. Gli interventi che si fanno su barche d’epoca riducono molto l’ispezionabilità delle zone nascoste della barca, per cui è difficile intervenire poi per manutenzione, per controlli e per riparazioni. Come al solito troppi armatori vogliono conciliare le opposte esigenze del restauro, del costo, della manovrabilità e dell’aggiornamento tecnologico, col risultato che molte famose barche d’epoca oggi sono soltanto grandi barche a vela in stile antico: un pò come certi armadi o cassapanche in stile spagnoleggiante o quasi rustico che si vedono nelle grandi esposizioni di mobili. A tutti i cantieri di restauro ho fatto la stessa domanda: “Quand’è che una barca è degna di essere restaurata?”. Ne sono risultati due tipi di risposta: la prima, tipica, ad esempio, di Sangermani, è che vale sempre la pena di restaurare una barca, anche se in pessime condizioni, perché è un atto d’amore, per il quale non si bada a spese. Secondo altri, ed a questa corrente di pensiero appartiene Angelo Beconcini, soprattutto quando la barca nasce bene ed ha un pedigree degno, ossia quando è stata fatta da un cantiere conosciuto e rispettato, da un progettista famoso, se è stata di proprietà di persone in vista e, soprattutto, se è di belle forme. Come si vede, in questa risposta entrano quelle motivazioni economiche, di passione, culturali, estetiche e di curiosità che sono le componenti che spingono un armatore a sopportare spese per centinaia di milioni – quando si parla di restauri economici – o più facilmente per miliardi, soltanto per fare rivivere un bellissimo oggetto unico e storico del quale ci si è innamorati. Ma altri problemi nascono quando si deve intervenire su una barca, a cominciare dal fatto che non si trova più lo Spruce, il legno americano e canadese col quale si facevano i migliori alberi e di conseguenza si deve ripiegare su altre essenze, come il Douglas o l’Hemlok. Di per sé il fatto non sarebbe grave se si dovesse ricostruire interamente l’albero; ma quando invece un albero di Spruce lungo 50 metri deve essere riparato con l’aggiunta di lunghi pezzi di legno diverso, ecco che si vede immediatamente la differenza di colore e di venatura del legno che viene impiegato attualmente. La stessa cosa si dica per il teak: oggi non si trova più nelle grandi lunghezze di una volta, ma nei casi migliori si va da 7 a 9 metri di lunghezza, fatto che costringe a ricostruire coperte in cui ogni 7 o 8 metri c’è un’aggiunta, un fatto che una volta era impensabile e sgradito, perché sintomo di costruzione un pò economica che utilizzava legname di pezzatura corta, mentre si sa che quello a pezzatura lunga è più pregiato e durevole. Non parliamo poi del fatto che una volta su una barca di Classe J l’equipaggio in regata era di una ventina di persone e anche più! Questo spiega perché le attrezzature di una volta erano semplici e si riducevano a paranchi: tanto a mettere in forza una sartia volante o una scotta pensavano almeno 20 paia di braccia, ma oggi? Sulla stessa barca l’equipaggio non supera tre, quattro persone e questo spiega il perché del doloroso ricorso a grossi winch elettrici, che purtroppo vengono piazzati in bella mostra in coperta, mentre sarebbe più comodo nasconderli sotto coperta per un maggiore rispetto dell’origine della barca. A questa necessità non sfuggono neanche gli impianti idraulici con grossi serbatoi, filtri e desalinizzatori, mentre invece gli impianti elettrici possono essere più facilmente nascosti. Una cura particolare viene data dai restauratori e dai progettisti alla scelta del dettaglio, ai bozzelli di legno costruiti come in origine, alle impiombature fasciate su cavo d’acciaio, alle manovre ricostruite esattamente, ai nodi decorativi che completano una manovra e l’abbelliscono. Un caso particolare è quello delle barche di servizio: un tender può ben essere un battello pneumatico su una barca moderna, ma su una barca di sessant’anni fa potrà essere soltanto una lancetta di legno e un Dinghy 12 piedi S.I., usati sia a servizio della barca, sia per fare regate nei momenti liberi. Sulla coperta dell'”Astra”, un classe J restaurato da pochi anni e attualmente al cantiere Beconcini, in coperta fanno bella mostra di sé un Dinghy 12 piedi S.I. con la targhetta del costruttore Luigi Mostes e una lancetta più piccola, sempre a fasciame sovrapposto: questi stessi tipi di barche si trovano poi spesso sui soppalchi dei cantieri di restauro, dove passano l’inverno. Simpatici e affascinanti nel calore del mogano, nella bellezza delle ordinate sottili, piegate a vapore, nei chiodi di rame ribattuti. Parlavo prima dei rapporti tra cliente e cantiere e tra cliente e progettista; come nascono al momento in cui si decide la ricostruzione di una barca storica. Stranamente sono rapporti in generale risultati buoni, al punto da essere talvolta idilliaci, forse, io penso, perché clienti, progettisti, cantiere e operai sono tutti appassionati di barche classiche. Una cosa impensabile quando si parla di normali riparazioni o costruzione ex novo di una barca in plastica, in cui l’unico vero legame che esiste tra armatore e costruttore è soltanto il denaro. E proprio questa simpatia e la passione che uniscono l’armatore ai restauratori fanno sì che normalmente gli interventi di restauro diano grandissime soddisfazioni a tutti. Un pò meno ne hanno i marinai e i comandanti di queste barche d’epoca che passano l’inverno a sverniciare chilometri quadrati di coppale e a ridarlo in più e più strati con faticosa ed amorosa pignoleria. Per quello che riguarda il costo di una trasformazione, non è possibile individuarlo perché sono troppe le variabili che entrano nell’equazione; è comunque apparso chiaro che il restauro di una barca in legno lunga circa 20 metri e portata in un cantiere in cattive condizioni, può oscillare dai seicento – settecento milioni fino a due miliardi. Questo dipende sia dalle reali condizioni di stato e di manutenzione in cui si trova la barca prima dell’intervento, sia anche dai sistemi costruttivi con i quali fu realizzata. Se, ad esempio, le strutture sono costituite da ordinate segate in legno, il costo sarà normalmente minore che se fossero in acciaio, con fasciame in mogano. E questo vale anche per ogni parte della barca, degli accessori e delle dotazioni. Una domanda viene spontanea: ma vale la pena di spendere miliardi su una barca? Al momento della vendita le spese sostenute verranno riconosciute e – insomma – la barca avrà acquistato un alto valore commerciale, oppure i soldi spesi in un restauro in gran parte sono buttati al vento? In coro rispondono i restauratori, ed hanno ragione, che i soldi spesi su una barca sono un autentico investimento, se saranno stati impiegati per un oggetto bello, nobile e famoso; mentre si potrebbe avere qualche problema di vendita quando la barca non è bella, se non addirittura brutta e soprattutto se non ha né pedigree, né personalità, né una storia simpatica o affascinante: per una donna affascinante si possono fare anche follie, per una barca no. Questo articolo ti è piaciuto? Condividilo!