A motore tra le onde, mare 4, la palestra perfetta di Lamberto Ballerini il 30 Dic 2020 Non c’è dubbio che, con il mare agitato, sia saggio restare in porto. Ma è pur vero che, quando il maltempo giunge a sorpresa nel corso della navigazione, bisogna sapere esattamente che cosa è giusto fare. O non fare. In un suo libro di grande successo, dedicato al volo sportivo e particolarmente focalizzato sul tema della sicurezza, il comandante Maurizio Majone invita caldamente tutti i piloti d’aeroplano a prendere confidenza con l’acrobazia. Può quasi sembrare un controsenso, tuttavia è subito chiaro che egli non intende solleticare alcuna forma di esibizionismo: l’acrobazia cui si riferisce è un puro esercizio finalizzato esclusivamente all’acquisizione di una sempre maggiore padronanza del mezzo. Quella padronanza che diventa determinante quando le situazioni più critiche si presentano improvvisamente, senza farsi annunciare. Ebbene, sulla nostra imbarcazione – in perfetto ordine – dovremmo fare qualcosa di simile: sfruttare cioè le giornate meno adatte alla classica gita con ospiti, per provare e riprovare alcune procedure e alcune tecniche di governo che, all’occorrenza, potrebbero rivelarsi provvidenziali. Un mare 4 della scala Douglas (onde di altezza da 1,25 a 2,50 metri) che non sia dichiarato in peggioramento – o meglio ancora che sia dichiarato in attenuazione – rappresenta una palestra ideale. Così come un amico di comprovata esperienza, al proprio fianco in funzione di tutor, è certamente consigliabile. Sommario L’uscita dal portoAl masconeMare al traversoMare di pruaAl giardinettoMare in poppaI frangentiIl rientro in porto L’uscita dal porto Bene, ipotizziamo un’uscita di allenamento. Mentre aspettiamo che i parametri di funzionamento dei motori abbiano raggiunto i valori corretti, svolgiamo la nostra checklist abituale, aggiungendovi – se non sono già comprese – le seguenti voci: carichi mobili: rizzati o stivati; portelli vari: chiusi e serrati; prese e scarichi a mare dei servizi: chiusi; flap, trim, interceptor: a zero; pompe di sentina: in automatico; ancora: bloccata sul musone (se in uso, verificarne il bloccaggio dopo aver salpato); carburante: non meno di quel che occorre, maggiorato del 20{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8}; gaffe: pronte all’uso; assistenti alla manovra: pronti, con guanti da lavoro indossati. Prima di scostare, valutiamo la forza e la direzione del vento, in quanto, nell’uscire dalla fila d’ormeggio (che costituisce pur sempre un discreto ridosso), incominceremo a sentirne l’effetto sottoforma di scarroccio. In prossimità dell’imboccatura, togliamo i parabordi (se mantenuti fuori, oltre che antiestetici, sarebbero una prodigiosa fonte di spruzzi) e teniamo sotto controllo il moto ondoso, per scoprire il ciclo delle onde più alte. Con lieve anticipo rispetto alla fase di relativa calma (quando, cioè, le onde più alte stanno passando), aumentiamo la velocità fino a quando non sentiamo che lo scafo diventa più reattivo. Appena fuori, accostiamo quanto basta per puntare al largo, tenuto conto che, soprattutto con il mare mosso, la sicurezza della navigazione è direttamente proporzionale alla distanza dalla costa. Una nota specifica a proposito dei trim, presenti sui motori fuoribordo e sui piedi poppieri (figura 1): a seconda dei casi, potrebbe (e sottolineiamo il condizionale) essere utile dar loro qualche grado positivo (trim-out/trim-up) per “alleggerire” la prua e renderla più reattiva al passaggio sull’onda oppure, al contrario, dare qualche grado negativo (trim-in/trim-down) per immergere maggiormente le eliche che, con questo tipo di trasmissione, tendono più facilmente a ventilare. Al mascone Affrontare le onde con un’angolazione fra i 30 e i 45 gradi – quel che si dice “navigare al mascone”, dal nome della parte di scafo che viene esposta al mare – offre un vantaggio geometrico indiscutibile. Prendiamo, per esempio, un mare 4 con una lunghezza d’onda (la distanza tra due creste) di circa 40 metri. Questa lunghezza è tale per una barca che navighi perfettamente incontro alle onde; ma per una barca che, rispetto ad esse, assuma un angolo – poniamo – di 45 gradi, essa cresce fino a quasi 60 metri (figura 2). Ovviamente, la stessa “trasformazione” si ha nella forma stessa dell’onda, che, risultando proporzionalmente più allungata, cioè meno ripida, diventa più facilmente superabile. I benefici di questa condotta, in termini di comfort, di velocità e di manovrabilità, sono facilmente sperimentabili, tanto che, se la nostra imbarcazione è abbastanza grande ed è dotata di una carena a V veramente profonda (diciamo pure dai 18 gradi di deadrise in su), è probabile che in tali condizioni la planata possa essere raggiunta e mantenuta senza problemi. Anzi, l’accelerazione può continuare fino a quando non si manifesti il primo accenno di decollo sull’onda, seguito da un’immancabile ricaduta violenta: quasi sempre basta rallentare temporaneamente nel momento giusto per impedire che il fenomeno si ripeta (figura 3). Non a caso, nelle competizioni offshore, il ruolo del throttleman – cioè l’addetto alle leve degli acceleratori – è importante almeno quanto quello del pilota ed è interessante vedere come la sua azione sulle leve sia continua ed energica. Ma se nel mondo delle gare il salto sull’onda va evitato prima di tutto perché provoca una netta perdita di velocità (già in volo lo scafo in volo rallenta sensibilmente), nell’utilizzo diportistico i motivi principali sono altri: il primo è che le barche si rompono, come dimostra l’elevata percentuale di distacchi tra costolature e fondi nelle imbarcazioni soggette a questo genere di pilotaggio disinvolto; il secondo è costituito dall’incolumità dell’equipaggio. La situazione cambia se il mare non consente di raggiungere la planata. In questo caso, per eseguire accostate rapide e con poco sbandamento, occorre aiutare l’azione del timone mediante un deciso incremento di spinta del motore esterno, accompagnato, eventualmente, dall’abbattimento di quello interno. È evidente che, per poter lavorare in questo modo, gli acceleratori devono poter lavorare indipendentemente, cioè non essere impostati in modalità single lever. Mare al traverso Disquisire tra carene più o meno adatte a navigare con le onde al traverso, è un esercizio puramente accademico. È vero che le carene a V profonda sono tra le più sensibili al rollio, soprattutto al di sotto di una certa velocità. Tuttavia, persino la più dislocante delle carene soffre terribilmente questa condizione. Il motivo è che, indipendentemente dal tipo di spinta al galleggiamento (dinamica o portante, quella dello scafo in planata; puramente idrostatica, quella della dello scafo in dislocamento), la carena si trova ad essere sollecitata sul suo asse più cedevole: quello longitudinale. Le conseguenze del rollio indotto dal mare al traverso possono essere diverse. Mediamente, al di sotto dei 25 gradi di ampiezza totale (cioè da un estremo all’altro del rollio), si riscontra soltanto una notevole scomodità per l’equipaggio, la quale però, può essere mitigata da un bravo timoniere, purché l’imbarcazione sia di quelle che rispondono ai comandi di barra assumendo un sensibile sbandamento dalla stessa parte dell’accostata: in sostanza si tratta di contrastare ogni singola rollata – con lieve anticipo – mediante un colpo di timone dalla parte opposta, seguito da un comando di controbarra, non appena si avverte che la spinta laterale dell’onda è cessata. È più difficile a dirsi che a farsi, ve lo garantiamo. Comunque, ricordate la regola semplificativa: non appena lo scafo accenna a rollare a dritta, date timone a sinistra; non appena accenna a rollare a sinistra, date timone a dritta. Al di sopra dei valori scomodi, ma accettabili, che abbiamo appena considerato, la navigazione col mare al traverso può diventare davvero critica. La continua uscita della carena dalle sue linee d’acqua ottimali costringe la barca a navigare male, sfuggendo spesso al governo. A ciò si aggiunge il problema delle appendici. Soprattutto in uno scafo bimotore, le eliche, i timoni e i flap – che sono posti a una certa distanza dall’asse di rollio – sono continuamente soggetti a una variazione di immersione che ne modifica l’efficacia. Nel caso specifico delle eliche, può verificarsi anche il fenomeno della ventilazione (da non confondere con la cavitazione) al quale abbiamo già accennato, che, se ciclico e importante, può risultare anche dannoso. Ventilazione eliche per rollio Se queste considerazioni ci portano a concludere serenamente che il mare grosso al traverso è sempre da evitare, resta il fatto che, in determinate circostanze, proprio non è possibile sottrarsene. Prendiamo, per esempio, un’accostata di manovra di 90 gradi (figura 5) che, a un certo punto della sua evoluzione, esponga necessariamente una fiancata alle onde. Figura 5 – Navigazione Ebbene, piuttosto che eseguirla con un ampio raggio – cosa giusta, in circostanze normali – è nettamente preferibile accorciarla, nel tempo e nello spazio, mediante un più deciso intervento sul timone, coadiuvato dal solito incremento di spinta del motore esterno e dalla riduzione di potenza del motore interno. Quanto alla velocità di avanzamento, è bene che per tutta l’accostata essa resti nell’ambito di un dislocamento pieno: pertanto, ammesso (e concesso con riserva) che in precedenza lo scafo fosse in planata, è d’obbligo frenarlo con sufficiente anticipo. Mare di prua Seconda solo al traverso, nella classifica delle andature scomode, la navigazione con il mare “contro” recupera il primato assoluto per quanto riguarda le sollecitazioni a carico dello scafo. In tal senso, la carena a V profonda – restando nell’ambito delle plananti – è tra quelle che soffrono di meno. Tuttavia, restando valido il discorso già fatto a proposito dei salti e delle ricadute, è facile che in tali condizioni non sia possibile raggiungere la planata, anche perché le velocità dello scafo e delle onde si sommano. È però sconsigliabile anche mantenere quel tipico assetto appoppato da “dislocamento veloce” che, oltre a moltiplicare il consumo di carburante, rende assai meno agile lo scafo, esponendo maggiormente la carena ai colpi dei marosi. Ancor più sconsigliabile è il tentativo di correggere l’appoppamento ricorrendo ai flap: il conseguente incremento di carico sulla prua non farebbe altro che inibire ulteriormente la sua capacità di adattamento al moto ondoso, rendendo ancor più “bagnata” la navigazione. Conviene dunque ridurre ulteriormente la potenza, per consentire alla carena di “copiare” meglio la sinusoide disegnata dalle onde e ridurre al minimo l’impatto. Figura 6 – Mare al giardinetto Al giardinetto Sulle antiche navi a vela, la coltura di piante commestibili veniva svolta su appositi banchi, affacciati ai lati della poppa, i quali, proprio per questo motivo, venivano chiamati familiarmente “giardinetti”. Anche se questa pratica è scomparsa, il termine è rimasto in uso per indicare l’andatura che espone al mare (o al vento, nel caso delle barche a vela) proprio quella parte dello scafo. Analogamente a quanto abbiamo indicato per la navigazione al mascone, possiamo dire che la barca naviga al giardinetto quando, rispetto al mare di poppa, assume un angolo compreso tra i 60 e i 30 gradi (figura 6). È un’andatura assai efficace, anche con il mare brutto: oltre ad “allungare” la distanza tra le creste d’onda (per quei motivi geometrici che abbiamo precedentemente indicato), essa si avvantaggia soprattutto del fatto che le velocità in gioco – quella dello scafo e quella delle onde – si sottraggono. Perciò, volendo e potendo, si può anche fare in modo che esse coincidano, raggiungendo un valore relativo uguale a zero: se la barca procede nel cavo di un’onda, mantenendosi alla sua stessa velocità, si trova di fatto a navigare su una porzione di mare virtualmente piatta. Fin qui, in teoria, tutto bene. Qualche problema nasce dal fatto che le onde non sono proprio regolari come si vorrebbe: seppure entro certi limiti, esse differiscono in altezza, in lunghezza, in direzione e in velocità. Ciò fa sì che non sia possibile mantenersi nell’idilliaca posizione che abbiamo configurato senza esercitare un continuo controllo sul timone e sulle leve del gas. Tanto è vero che, per riposarsi da questo continuo esercizio di equilibrio (che tanto assomiglia a quello dei surfisti), può essere utile variare la velocità della barca. Se possibile, aumentandola, per superare le onde e creare così una condizione di mare apparente del tutto simile all’andatura al mascone. Concentriamoci ora su un particolare comportamento che, in situazione di mare al giardinetto, riguarda praticamente ogni tipo di scafo. Per comprenderlo meglio, è necessario fare una breve digressione. Avrete notato che, negli scafi plananti di moderna concezione, la V di carena parte da poppa con un certo angolo che cresce progressivamente verso prua. Mediante questa architettura (che, a titolo di curiosità, non ha nulla a che vedere con la ben più rara carena Hunt, che è rigorosamente monoedrica, cioè ad angolo costante), si vuole soprattutto conferire un maggiore sostentamento dinamico alla poppa al fine di abbassare la velocità di planata. In questo modo, però, tra le due estremità di carena si determina anche una diversa stabilità direzionale: maggiore a prua, minore a poppa. Intendiamoci, non è un difetto. Anzi, in condizioni normali, questa caratteristica incrementa notevolmente la capacità evolutiva della barca; ma, col mare che “spinge”, può riservare qualche sorpresa. Vediamo come, tornando all’ipotesi di una navigazione in planata, a velocità simile a quella del moto ondoso (figura 7.1). Se un’onda leggermente più veloce o angolata aumenta la spinta sul giardinetto, la poppa risponde prontamente “scadendo”, cioè avviando un’accostata involontaria (figura 7.2). Se non interviene una pronta correzione di contrasto sul timone, magari coadiuvata dal solito incremento di spinta del motore esterno, questa veloce e ormai non più controllabile accostata involontaria (che, come nella vela, prende il nome di “straorzata”) porta lo scafo a intraversarsi con un forte sbandamento, cioè con una fiancata offerta alla cresta dell’onda di spinta, ormai incombente, e l’altra al cavo dell’onda sottovento (figura 7.3). A questo punto, proprio non è il caso di aspettare che il mare infierisca: senza incertezze, bisogna subito riprendere il controllo della situazione, agendo vigorosamente sul timone e sulle leve del gas. Già, ma da quale parte? E poi, accelerando o rallentando? Se non ci sono stati danni e il tutto si è risolto soltanto con una discreta dose di emozione, conviene senz’altro riportarsi sulla rotta precedente, accelerando fin poco oltre la velocità delle onde. Se invece si sospetta che danni vi siano stati e, soprattutto, si comprende che l’emozione non consente di riprendere subito il pieno controllo della situazione, conviene mettersi alla cappa. Ciò significa, in questo caso specifico, portarsi subito col mare al mascone, riducendo la potenza dei motori fino alla velocità minima di manovra (generalmente, dai 4 ai 6 nodi). In questa fase, che ha l’unico fondamentale scopo di consentire un generale riassetto delle cose e delle persone, il fatto di aver lasciato la propria rotta non ha assolutamente alcuna importanza. Si tornerà nella giusta direzione soltanto quando tutto sarà rientrato sotto controllo. C’è solo da ricordare che, quando si passa da un mare al giardinetto a un mare al mascone, tutti, a bordo, percepiscono la sensazione di un improvviso e radicale peggioramento delle condizioni meteomarine – maggiore movimento, più vento, spruzzi d’acqua eccetera – con tutte le conseguenze psicologiche del caso. Mare in poppa Tutto quel che abbiamo detto – nel bene e nel male – a proposito della navigazione al giardinetto, vale anche per il mare in poppa, ma almeno in misura raddoppiata. Il navigare a 20 nodi sulla parte discendente di un’onda che viaggia alla stessa velocità e nella stessa direzione, può essere eccezionalmente confortevole e anche molto divertente: il vento apparente è minimo; la barca è stabile e asciutta; i motori girano con poco sforzo; il timone è leggero. Tuttavia, le stesse subdole accelerazioni laterali che abbiamo considerato a proposito del mare al giardinetto, sono adesso ben più in agguato. Infatti, se in quel caso la straorzata incombeva da una sola parte (cioè verso l’unico lato sopravvento), offrendoci un chiaro suggerimento su quale dovesse essere l’eventuale azione di contrasto sul timone, in questo caso lo scafo può straorzare indifferentemente a sinistra o a dritta, a seconda della componente laterale che in quel momento “decide” di agire. A questo punto dovrebbe essere chiaro che, esattamente come accade su un’automobile da rally, sottoposta a un continuo dérapage controllato su una strada innevata, chi siede al timone di una barca che naviga col mare in poppa deve conoscere bene l’arte del controsterzo. La prima cosa da non dimenticare – perdonate la terribile insistenza – è che, particolarmente in questa situazione, la barca deve essere pilotata, energicamente, non soltanto con il timone ma anche con i motori. Tanto è vero che il pericolo della straorzata può aumentare proprio in fase di rallentamento (per esempio, in prossimità del porto): questo perché – soprattutto parlando di una classica trasmissione in linea d’asse – i timoni perdono progressivamente la loro efficacia. Bisogna pur dire che molto dipende anche dall’opera viva. A titolo orientativo, le carene monoedriche a V profonda con pattini longitudinali (cioè le “Hunt” propriamente dette) mantengono una buona manovrabilità a tutte le velocità, potendo permettersi anche di superare agevolmente il moto ondoso; invece, come abbiamo già visto, gli scafi con la carena alquanto piatta nelle sezioni poppiere ma fortemente stellata a prora richiedono un’attenzione maggiore e devono essere tenuti più a freno. Gli scafi dislocanti non pongono particolari problemi, in quanto, per mantenerne il controllo è generalmente sufficiente l’azione di anticipo sul timone. Per tutti, comunque, vale la regola generale di lasciare flap/trim/interceptor a zero per evitare – o quanto meno ritardare – il fenomeno dell’appruamento, che potrebbe innescare o favorire la famigerata straorzata. I frangenti Contrariamente alle apparenze, un’onda non provoca una vera e propria traslazione d’acqua. Tanto è vero che, facendo imprudentemente il bagno con il mare mosso “dove non si tocca”, si sale e si scende di quota restando sostanzialmente nello stesso punto. Diverso è il caso del frangente. Quando l’onda si rompe (cosa che generalmente accade quando passa su un fondale pari o inferiore a 1,3 volte la sua altezza: perciò vicino alle secche o in prossimità della costa), una consistente massa d’acqua si separa dal corpo principale e, accelerando sulla pendenza, (come il surfista che abbiamo già preso ad esempio), prende a planare. In tali condizioni, una barca si trova soggetta – contemporaneamente – a due forze contrastanti: una che agisce in una determinata direzione sull’opera morta (il frangente); l’altra, che agisce esattamente in direzione opposta sulla carena (l’acqua sottostante). Il risultato è dunque una “coppia”, che avvia un moto rotatorio percepibile drammaticamente soprattutto quando l’impatto avviene direttamente sulla fiancata: la barca si inclina fino ad assumere rapidamente un forte sbandamento, che, nei casi estremi, può portare addirittura al capovolgimento (figura 8). Figura 8 – Frangente al traverso Morale: quando si sta per entrare in una zona di frangenti particolarmente potenti, bisogna essere pronti a sottrarre le fiancate all’impatto e manovrare per affrontare la schiuma perfettamente di prua, con le macchine abbastanza su di giri per incrementare l’efficacia dei timoni. Poco male se la turbolenza del frangente, oltre a scuotere lo scafo, provoca la temporanea ventilazione delle eliche: l’importante è evitare i guai più grossi. A questo punto c’è però da chiedersi se una tale sorta di rodeo abbia un senso. La riposta è un “no” pressoché tassativo. Un conto è trovarsi involontariamente in una situazione tanto delicata; altro è andarsela a cercare, mettendo incoscientemente a rischio la vita delle persone. Purtroppo, però, proprio nel caso dei frangenti, gioca a sfavore anche un subdolo fattore psicologico che vale la pena di spiegare senza giri di parole. Abbiamo visto che la natura vuole che le onde si rompano vicino a terra, cioè, guarda caso, proprio in prossimità del porto agognato. Basta soltanto un piccolo sforzo, basta stringere i denti ancora per qualche minuto e si è lì, nella tranquillità delle acque protette, seduti a bere qualcosa di caldo, finalmente al sicuro. Tutto appare ormai a portata di mano. Purtroppo però, se non si è marinai davvero consumati ed esperti del posto, non è detto che le cose vadano in questo modo idilliaco. Quel “piccolo sforzo” potrebbe infatti rivelarsi d’improvviso come l’ostacolo che non si è in grado di superare. Ebbene, è proprio di fronte a quella seducente prospettiva che dovrebbe entrare in gioco prepotentemente la prudenza, quella che permette di riconoscere non soltanto le insidie del mare ma anche quelle della mente: se si ha il sospetto che le condizioni siano tali da impedire una manovra sicura, si deve rinunciare senza tentennamenti. Il che vuol dire riprendere il largo, allontanarsi dai frangenti, dirigere la barca verso un buon ridosso o verso un porto alternativo che offra migliori garanzie. Il rientro in porto L’avvicinamento a terra con cattivo tempo comporta la stessa gamma di manovre che abbiamo sin qui elencato per il mare aperto, ma con le aggravanti costituite dal fondale che decresce (dei frangenti abbiamo detto), dalla presenza di ostacoli fissi e dal traffico più intenso: ciò che richiede, insomma, una concentrazione superiore a qualsiasi altra fase della navigazione. Per restare sul pratico, soffermiamoci su una situazione più estrema, ma tutt’altro che inusuale: quella in cui il moto ondoso è più o meno perpendicolare all’asse di entrata del porto e, perciò, costringe inevitabilmente a percorrere la fase finale dell’avvicinamento con le onde al traverso. In questo caso, è bene assumere con un certo anticipo una direzione che porti a raggiungere l’asse in questione a una certa distanza dalle testate dei moli. Ciò per evitare che l’accostata finale avvenga a loro ridosso, con il rischio sia di non avere il tempo e lo spazio sufficienti a compiere una manovra sicura sia di non avere la perfetta visuale del traffico che, eventualmente, si trovasse all’interno, in prossimità dell’imboccatura. In assenza di controindicazioni, si può dunque procedere per l’allineamento: l’accostata finale deve essere compiuta rapidamente, con il solito aiuto del motore esterno, nel momento in cui le onde lasciano un po’ di tregua. Se le condizioni lo consentono, può convenire orientare la prua leggermente sopravvento e, sfruttando lo scarroccio, procedere lungo l’asse dell’allineamento con una leggera componente di moto laterale (figura 9): in tal modo, si riproduce una situazione di navigazione al mascone, che permette sia di ridurre il rollio sia di mantenere un migliore controllo dell’imbarcazione. Poco prima di attraversare l’imboccatura, è bene però orientare lo scafo lungo l’asse di allineamento, incrementando un poco la velocità – preferibilmente con le macchine pari – e, contemporaneamente, dando la giusta correzione di timone. Una volta entrati in acque protette, si deve rallentare alla velocità minima. Soltanto allora – e non prima, per evitare il rischio di cadute a bordo o in mare – si può incominciare ad allestire ciò che serve all’ormeggio, senza comunque allentare la concentrazione: la navigazione può essere considerata conclusa soltanto quando, al compimento di tutte le operazioni, i motori vengono finalmente spenti. Questo articolo ti è piaciuto? Condividilo!