Il porto e la barca, un binomio indissolubile di Lamberto Ballerini il 20 Dic 2024 Punto di partenza e meta agognata, luogo di ricovero e rifugio provvidenziale, il porto è un microcosmo nel quale la capacità marinara si esprime persino meglio di quanto avvenga in mare aperto. Le sue caratteristiche, le sue insidie, la sua storia. Chiunque possegga e utilizzi una barca sa bene che il tema del “dove” è centrale, sia che si tratti del luogo dove tenerla abitualmente all’ormeggio o in rimessaggio, sia che si tratti di scegliere le località da toccare – anche solo per poche ore – nell’arco di una crociera. Questo perché, per quanto bella e affascinante sia la navigazione, il momento in cui si dà volta all’ultimo cavo di ormeggio e si spegne il motore costituisce quel clou nel quale ciascuno vorrebbe poter allentare tutte le tensioni accumulate in mare aperto e godersi quella magica calma. Il condizionale è d’obbligo, poiché l’esperienza insegna che è proprio all’interno di un approdo – soprattutto se non abituale – che possono svilupparsi le maggiori tensioni: intrecci di ancore mal calate, venti di traversia, vicini maleducati, mancanza di assistenza eccetera. Questo è il motivo per il quale lo skipper più a rischio è quello che decide di entrare in un determinato porto soltanto perché sulla carta elettronica del suo plotter compare l’icona a forma di ancora che ne indica la destinazione turistica. Ma un porto non è come una stazione di servizio lungo un’autostrada, dove, in fondo, basta che ci sia una colonnina in grado di erogare carburante. Il porto è un vero e proprio microcosmo da studiare preventivamente, nel quale la vita scorre secondo ritmi definiti, imponendo alla quotidianità uno stile particolare. E spesso ha anche una lunga storia da raccontare. Segnalamenti laterali lungo il canale d’ingresso a Key Largo, Florida (Regione B) Sommario Elasticità = sicurezzaCosa fareLuci e colori amici… o no?Cosa stabilisce la IALAGli esempiL’arte di arrivareUn esempio estremoL’accosto e l’ormeggioScostamento e uscita con “mare”Se c’è un’altra barcaL’ormeggio di pruaE le scuole nautiche Elasticità = sicurezza Nella fase di progettazione di una crociera, quando magari si desidera privilegiare certe comodità, si tende a valutare la qualità di uno scalo sulla base dei servizi di hôtellerie che offre, mettendo in secondo piano quelle caratteristiche che, in determinate condizioni meteomarine, potrebbero trasformarsi in pesanti controindicazioni. Perciò è un errore dirigersi verso un porto che, sebbene previsto dal programma, sia in quel momento investito in pieno dai suoi venti di traversia, cioè quei venti ai quali risulta esposto. In quelle condizioni è decisamente più saggio scegliere un porto magari un po’ meno attrezzato, meno alla moda, più lontano, ma che in compenso garantisca un buon ridosso. In questo senso, come in molte altre occasioni, è buona cosa ispirarsi a quel che si usa fare nel mondo aeronautico, dove, a un aeroporto scelto preventivamente come scalo primario, si fa corrispondere un “alternato”: cioè un altro aeroporto che, per caratteristiche proprie, possa fungere da sostituto del primo nel caso in cui questo – per motivi vari, ma più spesso di carattere meteorologico – non dovesse risultare accessibile entro gli standard di sicurezza. È pur vero che, quando si parla di maltempo, bisogna prevedere che il porto che risulta più affidabile diventi la meta di una moltitudine di altre barche e che, pertanto, possa non avere posto disponibile o, peggio, possa essere invaso da un traffico di unità impegnate in manovre confusionarie. Non è un caso, infatti, che la maggior parte degli urti e delle collisioni si verifichi proprio in condizioni del genere e, più in particolare, nelle zone ad alta concentrazione di charter. Cosa fare Dunque, la prima cosa da fare, ancora in fase di avvicinamento, è prendere contatto con chiunque (autorità portuale, torre di controllo, altri diportisti che, collegati alle chat dedicate, tipo Navily, si trovino già in loco) possa dare informazioni precise circa la situazione interna e la disponibilità dei posti in base alle caratteristiche della barca e, casomai, possa dare una mano durante la manovra o, meglio ancora, allertare gli eventuali ormeggiatori. Un discorso a parte va fatto a proposito dei porti-canale che, in situazioni meteo avverse, possono presentare condizioni davvero proibitive per chi non è abituato a praticarli. Su YouTube c’è sequenza amatoriale (https://www.youtube.com/watch?v=HaTK-If4U-k ) che, mostrando la scellerata manovra di una barca a vela nel porto basco di Zumaia, fa letteralmente passare la voglia di improvvisarsi in questo genere di esercizio. Guardare per credere. Fanali laterali alle testate dei moli di Cavo, Isola d’Elba (Regione A) Luci e colori amici… o no? Chiunque navighi sa che l’ingresso dei porti e dei canali è segnalato da fanali che, all’incirca dal tramonto all’alba e in condizioni di luce scarsa, hanno la funzione di favorire le manovre di entrata e di uscita. Si tratta dei cosiddetti segnali laterali, in quanto con i loro colori rosso e verde (che riguardano anche le boe dedicate a tale scopo) identificano – proprio come i fanali di via delle unità in navigazione – rispettivamente il lato sinistro e il lato dritto. Già, ma da quale punto di vista? Per chi è abituato a navigare nel Mediterraneo (e più precisamente entro i confini di Europa, Africa, Australia e Asia con l’eccezione di Corea, Giappone e Filippine), la domanda può apparire scontata: il punto di vista di chi entra. Cioè, avvicinandosi dal largo verso le luci di un porto, bisogna manovrare in modo tale che queste corrispondano a quelle della barca: rosso del porto (o del canale) a sinistra; verde del porto (o del canale) a dritta. A1: Mazara del Vallo: la nave A entra correttamente Cosa stabilisce la IALA Tale configurazione corrisponde a quanto stabilito dalla IALA (International Association of Lighthouse Authorities) che, nel 1977, cioè a distanza di ben vent’anni dalla sua fondazione, è finalmente riuscita a ridurre da trenta a due i differenti sistemi di segnalamento marittimo in uso nelle varie parti del mondo e, più propriamente, negli ottanta Paesi ad essa aderenti. Due sistemi, dunque. Il primo, che si riferisce alla cosiddetta “Regione A”, è quello che abbiamo appena descritto. Il secondo, che si riferisce alla “Regione B” e che riguarda invece Canada, America (Nord e Sud), Corea, Giappone e Filippine, prende come riferimento il punto di vista opposto. È dunque in direzione dell’uscita che il navigante americano – al contrario del suo collega europeo – deve mantenere la cosiddetta parità dei colori: rosso di via con il rosso del porto; verde di via con il verde del porto. Al contrario, avvicinandosi dal largo, deve manovrare in modo tale che i fanali rosso e verde alle testate dei moli (o anche lungo i canali segnalati) siano rispettivamente a dritta e a sinistra della propria barca. Più che complicata, questa diversità tra i due sistemi è in grado di ingenerare quella stessa pericolosa confusione che proviamo quando, appena giunti nel Regno Unito, ci mettiamo alla guida dell’automobile dovendo tenere la sinistra. In ogni caso, considerando soprattutto il traffico di unità da diporto tra le due sponde dell’Atlantico, si comprende come il tema sia della massima importanza. Il pericolo della confusione è sempre dietro l’angolo ma diventa particolarmente critico in prossimità di quei porti che dispongono di moli di sopraflutto molto lunghi o di moli paralleli che si protendono verso il largo. A1-A2: Mazara del Vallo: la nave A entra correttamente; la nave B commette un grave errore Gli esempi Prendiamo per esempio il porto di Mazara del Vallo, in Sicilia, e il porto canale di Fiumicino, nei pressi di Roma. In questi casi, infatti, soprattutto nelle notti con scarsa visibilità e in difficili condizioni meteomarine, l’errata interpretazione delle luci può portare a investire in pieno uno dei moli (figure A1-A2 e B1-B2). C’è da dire che le probabilità di incorrere in questa specifica tipologia di incidente si riducono praticamente a zero se tutta la manovra di avvicinamento e di ingresso viene eseguita con il supporto del plotter cartografico e/o del radar, strumenti provvidenziali anche in questa specifica circostanza. A tale proposito, ricordiamo che nel corso della conferenza IALA del 2006, a Shanghai, si decise di riesaminare tutto il sistema di segnalamento marittimo sulla base dei profondi cambiamenti costituiti dai nuovi dispositivi di radioposizionamento e, a seguito di questa discussione, nel 2010 venne introdotta la marcatura AIS/ATON (Automatic Identification System / Aids To Nagigation) delle boe di ausilio alla navigazione. Manovre confuse in un porto ad alta concentrazione charter L’arte di arrivare Assai più della partenza, l’atterraggio – termine dal chiaro sapore aeronautico ma nondimeno appartenente anche al nostro ambiente – costituisce la procedura che più mette in luce le capacità e il grado di affiatamento di un equipaggio. Benché non sia codificato con lo stesso dettaglio che caratterizza le operazioni previste per il volo – particolarmente quello commerciale – esso è quasi sempre basato su specifiche disposizioni e informazioni trasmesse dal controllo di terra e/o dichiarate dal portolano di riferimento (per esempio: una zona di lavori in corso, i limiti di velocità, la mano da tenere, la presenza di un traffico specifico eccetera) e sulla sequenza di azioni ordinate dal comandante dell’unità. Ma a rendere le cose un po’ più complicate è la condizione psicologica indotta dal desiderio di raggiungere il più presto possibile l’ormeggio e dall’ancor più insidiosa sensazione di essere comunque ormai giunti alla conclusione del viaggio, anche se si è appena passata l’imboccatura: l’immancabile risultato di questo stato psicologico è il pericoloso abbassamento della soglia di attenzione. Per questo motivo, il mio istruttore di volo raccomandava sempre: “Potete considerare concluso l’atterraggio soltanto quando siete fermi al parcheggio e spegnete il motore”. È pur vero che, in condizioni ideali (luce solare, perfetta visibilità, assenza di vento e di corrente, mare piatto) i rischi sono ridotti al minimo. Ma di notte o con il maltempo (condizioni che, se a bordo tutto funziona regolarmente, rendono consigliabile il restarsene bene al largo, quantomeno in attesa del giorno o della calma) tutte le problematiche si complicano incredibilmente, anche per il navigante esperto. In fase di attracco, un aiuto da terra è sempre utile Un esempio estremo Per essere pratici, analizziamo questa delicata fase della navigazione pensando alla situazione più delicata: quella laddove esiste un momento in cui, per allinearsi con l’asse dell’imboccatura del porto, può anche essere necessario disporsi con mare al traverso. In questo caso, tutt’altro che inusuale, è bene assumere, con un certo anticipo, una direzione che porti a raggiungere l’asse in questione a una certa distanza dal porto. Ciò per evitare che l’accostata finale avvenga troppo a ridosso delle testate dei moli, con il rischio sia di non avere il tempo e lo spazio sufficienti a compiere una manovra sicura, sia di non avere la perfetta visuale del traffico che, eventualmente, si trovasse all’interno, in prossimità dell’ingresso (figura C). Qualora vi fosse, infatti, potrebbe essere consigliabile – se non addirittura necessario – riprendere il mare, per rimandare la manovra a un momento più favorevole. Figura C: La corretta accostata di allineamento rispetto alle onde In assenza di controindicazioni, si può dunque procedere per l’allineamento: l’accostata finale deve essere compiuta rapidamente (nel caso di motoryacht bimotore magari con l’aiuto del motore esterno e, se del caso, anche con quello dell’elica di prua, presente anche su molte barche a vela) nel momento in cui le onde lasciano un po’ di tregua. Una volta di fronte all’imboccatura, bisogna mantenere una velocità e un orientamento che consentano allo stesso tempo la piena manovrabilità della barca e il mantenimento dell’allineamento (figura D). Appena raggiunto il ridosso, si può – e si deve – rallentare alla velocità consentita dal regolamento del porto. Soltanto ora che il pericolo di cadute in mare è decisamente minore, il comandante – avendo consapevolmente e responsabilmente contravvenuto alla regola d’oro che prescrive di prepararsi con un congruo anticipo – può decidere di far allestire i parabordi, preparare le cime da ormeggio e la calata dell’ancora (anche se non prevista ma potenzialmente necessaria nel caso di improvvise avarie). Da questo momento in poi, fino alla manovra di accosto, è necessario considerare costantemente la forza/direzione del vento e della corrente che, soprattutto a causa della presenza delle strutture portuali, potrebbero risultare molto diverse da quelle rilevate al largo, sottoponendo la barca a improvvisi scarti di scarroccio e di deriva. Se la barca è dotata di propulsione bimotore in linea d’asse, consigliamo di procedere all’interno del porto con il timone fisso al centro – poiché alla minima velocità è poco efficace – governando unicamente mediante la spinta diversificata delle eliche principali e delle eliche di manovra. Se poi c’è il joystick (e lo si sa usare disinvoltamente), è bene affidarsi esclusivamente a quello. A questo punto ogni componente dell’equipaggio, indossati i guanti protettivi, deve già sapere quali sono i suoi compiti per la fase successiva. Figura D: Idem ma con diversa direzione del moto ondoso L’accosto e l’ormeggio Giunti all’altezza del posto prescelto/assegnato e disposta opportunamente la barca per il classico accosto in andana (cioè, infilandosi di poppa tra due barche), la fase successiva dipende dall’attrezzatura del porto. Se c’è un corpo morto con trappa, si deve manovrare direttamente in retromarcia mantenendo l’allineamento con il posto: cosa relativamente facile con una barca bimotore (e magari dotata di joystick), molto meno facile con una barca a vela, soprattutto se priva di elica di prua. In quest’ultimo caso è bene iniziare l’accosto da una certa distanza, in maniera tale da poter prendere abbastanza abbrivo da rendere efficace il timone nel contrastare l’effetto-elica (che è particolarmente energico appena ingranata la retromarcia) e quindi dirigere la barca nella direzione voluta. In manovra usando le leve degli invertitori In mancanza di trappa è ovviamente necessario dar fondo all’ancora, rispettando il più possibile tutte le regole di questa delicata operazione. Qui ci preme soltanto raccomandare tre cose: che il calumo sia il più lungo possibile (purtroppo, non sempre potrà rispettare la proporzione canonica del 5:1 rispetto al fondale); che esso non finisca per passare sui calumi di altre barche; che, possibilmente, si provveda ad allestire un grippiale per segnalare la posizione dell’ancora e per facilitarne il recupero in caso di problemi. Nell’avvicinarsi alla banchina è assolutamente necessario assicurarsi con i propri occhi che non vi siano ostacoli che possano danneggiare i timoni o le eliche: a tal fine aiuta molto osservare la distanza mantenuta dalle barche già ormeggiate. Da evitare l’impiego di mani e braccia come ausilio dei parabordi. Appena raggiunta la posizione finale, vanno disposti i cavi d’ormeggio partendo, in ordine, da quelli sopravvento che esercitano maggiore forza di trazione; dopodiché si può passare la trappa a prua e metterla in forza, ovvero recuperare la propria catena, rifinendo la tensione dei vari cavi e il posizionamento dei parabordi. Soltanto adesso, dopo aver verificato che si è in piena sicurezza, si può spegnere – esattamente in questo ordine – l’elettronica di bordo e i motori. L’allestimento dei parabordi va eseguito nel momento giusto Scostamento e uscita con “mare” Premessa d’obbligo: se il porto non è in condizioni di forte traversia, insomma se proprio non è necessario lasciarlo per trasferirsi in un altro più protetto, l’uscita con il mare mosso è sempre da evitare. Detto ciò, sebbene sia mediamente meno critica, anche la manovra di uscita ha le sue regole importanti, soprattutto tenuto conto che, partendo da una condizione di “riposo”, la barca deve prima essere messa in perfette condizioni operative. Perciò, anche in questo caso è bene seguire la propria check-list, ricordandosi sempre di accendere l’elettronica di bordo soltanto dopo aver messo in moto i motori secondo le procedure previste dal loro manuale d’uso. L’uso del joystick semplifica la manovra, ma bisogna saperlo usare Quindi sottolineiamo l’importanza di valutare la forza e la direzione del vento, in quanto, già scostando e uscendo dalla fila d’ormeggio (che produce essa stessa un discreto effetto di ridosso), si incomincia a sentirne l’effetto sotto forma di scarroccio. Anche stavolta i cavi devono essere mollati secondo una precisa progressione, incominciando da quelli sottovento o comunque da quelli che, in quella specifica condizione, non concorrono a stabilizzare lo scafo. Se necessario, la loro tensione deve essere allentata mediante prudenti spinte di motore indietro, evitando quanto più possibile l’uso della forza muscolare. Inoltre, come già raccomandato, va evitato l’impiego di mani e braccia come ausilio dei parabordi. Una volta liberi e usciti dalla fila, non è il caso di cercare l’efficienza dei timoni forzando l’andatura: si aumenterebbe soltanto il rischio di collisioni. Perciò, ripetendo quanto consigliato nel paragrafo precedente a proposito della propulsione in linea d’asse, la cosa migliore è lasciare la barra al centro e manovrare esclusivamente per mezzo delle leve degli invertitori con i motori al regime minimo, aiutandosi semmai con i thruster oppure affidandosi del tutto al joystick. Si tenga conto “umilmente” che, se non si è ben allenati (cosa che capita spesso all’inizio di stagione), è molto facile andare in confusione. Se ci si accorge che ciò sta accadendo, è bene mettere le leve in folle e togliere le mani dai comandi: l’eventuale urto sotto leggero abbrivo contro un qualsiasi ostacolo è niente in confronto a una collisione a cinque nodi con le macchine in spinta. Una volta riordinate le idee e recuperata la calma, si può ripartire. L’arte di accostare con la poppa, senza elica di prua Se c’è un’altra barca Se nel porto c’è anche solo un’altra barca in manovra verso l’uscita, lasciamole prendere un ampio vantaggio per evitare di ritrovarci troppo vicini al momento di prendere il mare; analogamente, se all’interno della nostra area di manovra c’è un’imbarcazione in fase d’accosto o anche in avvicinamento, prossima ad entrare in porto, lasciamole tutto lo spazio di manovra necessario. Prudente uscita con mare mosso al traverso Ipotizzando una condizione meteomarina identica a quella considerata per l’entrata, giunti in prossimità dell’imboccatura, togliamo i parabordi (a meno che l’operazione non possa essere eseguita in piena sicurezza successivamente) e teniamo sotto controllo il moto ondoso. Il recupero della trappa Con lieve anticipo rispetto alla fase di relativa calma, quando cioè le onde più alte stanno passando, aumentiamo la velocità fino a quando non sentiamo che i timoni acquistano efficacia. Appena fuori, accostiamo quanto basta per portare la prua a un angolo compreso tra i 60 e i 30 gradi rispetto al moto ondoso: quel che in gergo si chiama “andatura al mascone”, dal nome della parte di scafo che viene offerta al mare. Se serve a velocizzare la manovra, aumentiamo temporaneamente la spinta del motore esterno. Non conviene compiere ulteriori manovre – magari al fine di prendere subito la rotta prestabilita – se non quando questa fase di semplice allontanamento dal porto per prendere il largo il più rapidamente possibile non è considerata completata, se del caso, anche compiendo una sorta di “bordeggio”. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che la sicurezza della navigazione è direttamente proporzionale alla distanza dalla costa, soprattutto con il mare mosso. Proprio come si riscontra nel volo, laddove la sicurezza è direttamente proporzionale alla quota. Porto di Aghia Eufemia, Grecia: poppe alla banchina e ancore in acqua L’ormeggio di prua In particolare pensando a un accosto in condizioni meteomarine fortemente avverse, è sempre bene valutare con sana umiltà se si è in grado di compiere in sicurezza la manovra in retromarcia, per accostare con la poppa (come si usa normalmente in Italia e, più in generale, nel Mediterraneo) o se invece non sia il caso di disporsi di prua (come più frequentemente si usa nei Paesi nordici, dove non a caso molte barche hanno il sistema di ancoraggio a poppa), cosa che può risultare assai più agevole per una barca a vela, soprattutto se priva di elica di prua. I cavi d’ormeggio vanno posti nella giusta sequenza Se c’è una trappa la manovra risulta semplice e sicura, mentre l’unico problema può essere costituito dalla più difficoltosa discesa a terra. Se invece è necessario dar fondo all’ancora le cose si complicano parecchio, poiché è necessario allestire l’ancora di rispetto che, normalmente, non dispone di catena se non per qualche metro: un calumo misto che certamente non è affidabile, soprattutto se il “ferro” non è dell’ultima generazione. Appoggiarsi alla barca vicina mediante spring e traversini (ovviamente dopo aver chiesto il permesso al suo comandante) non è mai consigliabile. Quando l’uso delle mani è sconsigliabile E le scuole nautiche Soprattutto per questioni organizzative, gli esami pratici per il conseguimento delle patenti nautiche prevedono ben poco riguardo alle manovre in porto. Comprensibilmente, le scuole di settore si adeguano. Resta il fatto che, mediamente, i neo-comandanti non sono minimamente preparati ad affrontare le complesse problematiche legate a questo fondamentale tema. Il Comandante Valter Cimaglia Valter Cimaglia, direttore dell’Accademia del Mare di Roma, una delle scuole italiane più rinomate e apprezzate. È davvero così? Purtroppo sì, è davvero così. In Italia, la patente nautica – che sarebbe preferibile chiamare Abilitazione al Comando, che è cosa concettualmente ben diversa – è sempre stata strutturata nei percorsi formativi in modo tale da andare incontro alle richieste dell’utenza, scegliendo il percorso più facile, più veloce e più economico. Anche per questo molti pensano erroneamente: ‘tanto in barca ci so andare…che ci vuole?’. Quindi possiamo dire addirittura che si tratta di un problema tipicamente italiano? Non so se davvero l’Italia sia un Paese di santi e di poeti. Di sicuro non è un Paese di grandi navigatori… da diporto. Purtroppo manca una sana e radicata cultura nautica, a differenza di altri Paesi dove il percorso formativo è molto più serio e strutturato, tanto da facilitare anche l’ingresso nel mondo professionale. Trattandosi di un problema di sicurezza, che cosa consiglia di fare all’aspirante comandante che voglia colmare questa lacuna? Si può accelerare questo processo iscrivendosi a corsi mirati, dopodiché il consiglio generale più giusto è quello di navigare tanto: ogni minuto passato in barca è storia ed esperienza e tutto concorre a migliorare le proprie capacità. Le scuole nautiche sono organizzate in tal senso? Alcune scuole hanno percorsi formativi post-patente, ma non sono molte, anche perché un’offerta formativa di questo tipo richiede una struttura ben articolata, con diverse imbarcazioni e personale qualificato. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, le scuole nautiche italiane pensano a raggiungere l’obiettivo-patente il prima possibile, dopodiché abbandonano a sé stessi i loro allievi. Come ha organizzato invece la sua Accademia del Mare? La nostra struttura è nata con il preciso obiettivo di fare cultura nautica e consentire ai suoi allievi di raggiungere la loro autonomia a bordo, in piena sicurezza. Tutto questo incomincia con il corso patente, che si sviluppa in 6/7 mesi, con oltre 70 ore di aula e oltre 50 di pratica in mare. Prosegue poi con i corsi di perfezionamento: ancoraggio e ormeggio, navigazione notturna, primo comando, navigazione di altura, sicurezza e prevenzione. Un percorso non breve. Per chi si avvicina a questo mondo e vuole diventare ‘comandante’ deve essere chiaro che si tratta di un percorso che ha i suoi tempi. Questo articolo ti è piaciuto? Condividilo!
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