Le Azzorre, estremo lembo d’Europa in mezzo all’Atlantico, offrono al visitatore città storiche, selvaggi panorami marini, aspri coni vulcanici, magiche distese lacustri e fioriture di azalee, ma anche memorie di caccia alla balena, un’attività che gli isolani hanno praticato per più di un secolo. L’itinerario del “Whaling Heritage” ripercorre la storia di quest’affascinante patrimonio.

L’arcipelago delle Azzorre, a 1.500 chilometri da Lisbona e a 2.800 da St. John di Terranova, è composto da nove isole di origine vulcanica. A differenza delle Canarie, abitate fin dalla preistoria, qui non si è registrata alcuna presenza umana prima dell’arrivo dei portoghesi, che vi sbarcarono nel 1455. Se la scarsità di terreno coltivabile e la lontananza dalla madre patria hanno reso difficili le prime fasi di popolamento dell’arcipelago, la pesca ha sempre rappresentato una risorsa importante. Il clima piovoso, poi, è adatto all’allevamento del bestiame, tanto che ancora oggi le isole ospitano più mucche che abitanti.

Gli ultimi capodogli
Gli ultimi capodogli

Alle Azzorre la caccia ai grandi mammiferi marini iniziò a partire dal 1850, grazie ai rapporti instaurati con le navi baleniere statunitensi, che vi facevano spesso tappa. Nei primi decenni dell’Ottocento tale flotta, il cui centro principale era New Bedford, ebbe uno straordinario sviluppo: nel 1857 la sua consistenza raggiunse l’apice, con ben 329 navi, sulle quali erano imbarcati più di diecimila marinai. Tra questi, molti erano originari delle Azzorre e delle isole di Capo Verde.

Quest’epoca d’oro della caccia alla balena rivive nelle pagine di “Moby Dick”, un testo del 1851. Ecco come Melville presentava la città dei balenieri:

In nessun altro punto dell’America troverete un numero maggiore di case patrizie, parchi e giardini più ricchi che a New Bedford. Donde vengono queste cose? Come si sono impiantate su questa che era una volta una scabra scoria di terra? Andate a guardare i ramponi emblematici in ferro intorno a quell’alto palazzo, e la vostra domanda avrà risposta. Sì, tutte quelle case coraggiose con giardini fioriti sono venute dall’Oceano Atlantico, dal Pacifico e dall’Indiano. Dalla prima all’ultima, sono state ramponate e trascinate qua, su dal fondo del mare… In New Bedford, dicono, i padri dànno balene in dote alle figlie e legano ai nipoti un po’ di focene a testa. Bisogna andare a New Bedford per vedere nozze splendide: perché dicono che là ogni casa ha depositi d’olio e ogni notte si bruciano senza economia candele di spermaceti.”

Herman Melville, Moby Dick o la balena, Frassinelli, Torino, 1963, pag. 64.

CACCIA STANZIALE ALLA BALENA

Alle Azzorre la tecnica della caccia alla balena si è sviluppata in modo originale perché gli abitanti non disponevano dei capitali necessari per armare una flotta di navi baleniere. Si praticava quindi una caccia stanziale, in attesa che un branco, composto quasi sempre di capodogli (balene provviste di denti), si avvicinasse alle isole.

In termini economici, l’investimento era minimo: gli equipaggi potevano attendere ai loro consueti lavori ed era sufficiente che qualcuno presidiasse i punti di osservazione che ancor oggi costellano le coste: semplici garitte provviste di un’ampia apertura verso il mare. Quando la vedetta avvistava un branco dava l’allarme e gli uomini validi – contadini, artigiani, muratori, marinai – abbandonavano le loro occupazioni e accorrevano ai porti.

Qui mettevano in mare le barche baleniere, che erano poi rimorchiate in prossimità del branco da veloci motoscafi. Le baleniere, lunghe una decina di metri e dalle linee simili a quelle americane, erano condotte da un equipaggio di sei uomini, comandati da un capo barca (mestre). Il fiocinatore (trancador) disponeva di due armi: un arpione da lancio assicurato a un cavo lungo almeno trecento metri e una pesante lancia che veniva utilizzata per finire i mammiferi marini.

Giunti a qualche centinaio di metri dal branco, per evitare che questo si disperdesse al rumore del motore, le baleniere si liberavano del cavo di rimorchio e procedevano a remi, o se possibile a vela, cercando di mantenere il silenzio. L’abilità del capo barca consisteva nell’indovinare il punto dove il capodoglio, dopo l’immersione, sarebbe nuovamente emerso per respirare. Se ci riusciva, bastavano pochi colpi di remo per portare il suo fianco alla portata del fiocinatore.

A volte, per evitare il minimo rumore, l’ultima parte dell’avvicinamento avveniva utilizzando delle pagaie. Giungere a pochi metri dall’enorme cetaceo, che con un solo colpo di coda poteva sfasciare facilmente l’imbarcazione, richiedeva notevoli doti di coraggio e sangue freddo: poteva accadere che chi dell’equipaggio era alla sua prima esperienza rimanesse paralizzato dalla paura.

Dopo esser stato arpionato, il capodoglio si immergeva di colpo in profondità e occorreva allora mollare velocemente quanto più cavo possibile, cercando di stancarlo e di fargli perdere le forze. Se ci si riusciva, si ricorreva allora alla lancia, per colpirlo in una zona vitale.

La quantità di prede variava nel corso del tempo: per le Azzorre l’anno record fu il 1948, con 700 capodogli. Può sembrare un numero importante, ma questa caccia, condotta con tecniche antiche, rappresentava solo una frazione delle catture delle navi baleniere moderne, armate di cannoncino, che nella stagione 1950-1951 in tutto il mondo uccisero ben 17.500 capodogli.

Va tenuto presente che i mari dell’Antartico erano quelli che fornivano il maggior numero di prede: in tali aree venivano cacciati soprattutto i misticeti (provvisti di fanoni) come la balenottera azzurra, che può raggiungere i trenta metri.

Baleniera
Baleniera

Nell’annata record del 1938, in tutto il modo furono uccisi circa 55.000 cetacei, di cui l’84 per cento in Antartico. Tuttavia, a partire dagli anni ’60 del Novecento l’industria baleniera cominciò a declinare: molte specie di balene, dopo tanti anni di caccia indiscriminata, erano ormai in pericolo di estinzione mentre il loro olio subiva la concorrenza di nuovi prodotti dell’industria chimica.

Nel 1982 l’International Whaling Commission proibì la caccia alla balena, a partire dal 1985, nel Nord Atlantico. Nelle Azzorre l’ultimo capodoglio fu catturato al largo di Pico il 21 Agosto 1987.

SULLE TRACCE DEI BALENIERI

L’itinerario può iniziare nell’isola di Terceira, dove si atterra a Lajes, un aeroporto che ha avuto un ruolo chiave durante la “Battaglia dell’Atlantico” della Seconda Guerra Mondiale.

Nel corso del 1942 gli U-Boot tedeschi, con la loro tecnica di attacco a “branco di lupi”, affondarono più navi di quante gli Alleati riuscissero a mettere in mare. La minaccia fu contenuta dall’organizzazione di convogli accompagnati da navi scorta e dall’attività di pattugliamento aereo a lungo raggio.

L’autonomia degli aeroplani del tempo, tuttavia, non permetteva di controllare l’intera superficie dell’Atlantico Centrale, che presentava un’area nella quale gli U-boot potevano operare in modo indisturbato. Occorreva allestire una base alle Azzorre, ma per far ciò bisognava superare la neutralità del Portogallo.

Il problema fu aggirato dai collaboratori di Churchill: consultando gli archivi storici fu riesumato un trattato, stipulato nel lontano 1373 tra Londra e Lisbona, che dava agli Inglesi il diritto di stabilire basi militari in terra lusitana. Nell’ottobre del 1943, gli Alleati sbarcarono così a Terceira e iniziarono grandiosi lavori di ampiamento dell’aeroporto, che l’anno seguente poteva contare su due piste di 2.000 metri e su una di oltre 3.000, allora la più lunga del mondo. A questo punto la falla nella difesa degli Alleati fu colmata.

Angra do Heroismo, il centro storico più importante di Terceira, è la capitale politica di tutto l’arcipelago. Sulla sua piazza che si affaccia sul mare, circondata da eleganti edifici cinquecenteschi, la statua bronzea di Vasco da Gama, in grandezza naturale, non ha il piedistallo e pertanto il suo profilo, visto di lontano, sembra confondersi tra i passanti.

Angra do Heroismo
Angra do Heroismo

A Sᾶo Mateus da Calheta la bianca facciata della chiesa domina il porticciolo, pieno di pescherecci colorati. Qui la “Casa dos Botes” conserva due barche baleniere complete delle loro attrezzature e molte immagini di caccia alla balena.

Nell’esplorare le coste dell’isola, costituite per lo più da aspre scogliere vulcaniche, ci si imbatte spesso in vecchie postazioni di vedetta e in indicazioni di “porto dei balenieri”. Queste non vanno prese troppo alla lettera, spesso non sono neppure dei porticcioli ma solo dei ripidi scaletti che finiscono in mare, stretti tra irte scogliere vulcaniche battute dalle onde. Anche le semplici operazioni di alaggio non dovevano essere esenti da rischi.

Per spostarsi nell’isola di Faial e poi in tutto l’Arcipelago, il mezzo più utilizzato è l’aereo, ma qui non si può sempre fare affidamento sulla regolarità dei voli interni: capita spesso che la violenza del vento o la scarsa visibilità causino ritardi o annullamenti.

Nelle Azzorre, le città sono di dimensioni modeste: Horta, il centro principale dell’isola, conta solo 7.000 abitanti. Quello che la rende unica, oltre alle chiese e agli antichi conventi fondati dai portoghesi, è il fatto che il suo porto è al centro della rete di rotte dell’Oceano Atlantico.

Horta
Horta

Il museo cittadino ricorda come, a riprova della sua posizione strategica, la città sia stata uno snodo importante del sistema dei cavi telegrafici transatlantici. Anche i primi tentativi di trasvolata hanno lasciato qui le loro tracce: risale al 1919 il primo esperimento di collegamento tra il continente americano e le Azzorre tentato dall’U.S. Navy.

Per segnare la rotta fu utilizzato un sistema elementare, benché dispendioso: fu disposta una flotta di 22 cacciatorpedinieri, in fila uno dopo l’altro e distanziati tra di loro di 50 miglia, in modo tale che durante la notte le loro luci guidassero i piloti. Dei tre idrovolanti decollati da Terranova solo uno, il Curtiss NG4, dopo un volo di 15 ore e 18 minuti, ammarrò a Horta.

Qui ancor oggi fanno scalo molti degli yacht e dei velieri che attraversano l’oceano e fa ormai parte della tradizione locale che il ricordo di questi passaggi sia immortalato in pitture murali multicolori, che si affollano e si sovrappongono, occupando ogni spazio libero delle calate del porto.

Il “Peter Caffè Sport” è un altro luogo da non perdere, decorato com’è da centinaia di bandiere, foto e memorabilia degli equipaggi di velieri che vi hanno fatto tappa nelle loro traversate. Una breve passeggiata conduce a Porto Pym, un tempo il principale scalo di attracco della città.

All’estremità della spiaggia, fiancheggiata dalle case del centro storico, sorge la “Fàbrica da Baleia”. Lo stabilimento è stato attivo dal 1940 al 1973; oggi è trasformato in un monumento di archeologia industriale che conserva gran parte dei suoi macchinari originali e funziona come centro per la protezione della fauna marina.

Sulla costa nord dell’isola, una delle attrattive è rappresentata dal Vulcᾶo dos Capelinhos, che si è originato lungo la costa nel 1957. L’eruzione ha letteralmente polverizzato il villaggio che ospitava una comunità di balenieri, tanto che solo una targa sulla lava ne riporta la memoria.

Lì accanto, le strutture massicce del faro hanno resistito alla furia eruttiva, ma ormai la sua funzione è superata, perché dalla parte del mare è sorta la montagna vulcanica che ha aggiunto qualche chilometro quadrato alla superficie dell’isola.

Il traghetto per l’isola di Pico, che prende nome dall’imponente vulcano di 2.351 metri di altezza che costituisce il migliore punto di riferimento a distanza delle Azzorre, ha dei portelloni massicci e sembra progettato più per passare dall’altra sponda dell’Atlantico che per percorrere una breve traversata.

La ragione ce la ricorda il capitano D’Albertis, che nel 1886 raggiunse l’arcipelago con il suo yacht Corsaro:

“le forti correnti che si formano nel canale di San Jorge, largo 10 miglia, – correnti prodotte in gran parte dalle acque del Gulf Stream che vi si espandono, aumentate dalle forti maree e dai furiosi colpi di vento che piombano rabbiosi dalle alture dell’isola – rendono oltremodo burrascoso questo canale, giustamente temuto dagli isolani”.

E.A. D’Albertis Crociere del Violante e del Corsaro, Mursia, Milano, 1973, pag. 283.

Si approda nel centro principale dell’isola, il paese di Madalena. Nella vicina zona di Adegas, situata sotto la massa conica del vulcano, antiche colate hanno raggiunto il mare e qui muretti di lava proteggono le piante di vite, creando un microclima adatto a un vino di qualità.

Nei villaggi, il nero dei muri di pietra lavica contrasta con il rosso vivo delle porte e delle finestre.
Fino agli anni Ottanta, Pico è stata l’isola dei balenieri per antonomasia e ancor oggi vi sono organizzate le escursioni di whale-watching che offrono le maggiori probabilità di avvicinarsi ai grandi cetacei.

Non stupisce che qui si trovino due importanti musei dedicati alla baleneria: nel porto di Sᾶo Roque si trova la fabbrica che ospita il “Museu da Indùstria Baleeira”, una struttura dove un tempo i capodogli venivano trasformati in olio e mangime per animali.

Vi sono caldaie per l’estrazione del grasso, cisterne per l’olio, macine per la carne e le ossa. Lì davanti è collocato il ”Monumento ao Baleeiro”, che mostra un cacciatore di balene che brandisce il suo arpione. A Lajes do Pico un moderno “Museu dos Baleeiros” ha invece trovato posto in un ex deposito di baleniere. Per individuarlo, non c’è bisogno di particolari indicazioni perché una massiccia testa di capodoglio fuoriesce dalla facciata.

La struttura offre un esauriente spiegazione dell’influenza che ebbero gli Stati Uniti nello sviluppo della caccia ai grandi cetacei e ospita una spettacolare collezione di incisioni su ossa e denti di capodoglio. In paese, un cartello indica le distanze dai centri del mondo baleniero: 3.113 chilometri da Mingan Island in Canada, 3.154 da Husavik in Islanda, 1.526 da La Gomera di Tenerife, da Puerto Madryn, nella Patagonia argentina.

A Santo Amaro, si trova poi un “Museu Maritimo Construçao Naval” dedicato alla carpenteria navale, davanti al quale è stata collocata la massiccia struttura di un peschereccio di legno. Il porticciolo di Calheta di Nesquim, sorvegliato dai due eleganti campanili della chiesa parrocchiale, in stagione ospita regate di barche baleniere e sul suo scivolo si può scoprire uno degli ultimi esemplari di lancia baleniera motorizzata, l’“Estrella Açoriana,”, perfettamente restaurata.

Le Azzorre, collocate come sono sulle principali rotte marittime dell’Atlantico, presentano un notevole numero di fari, alcuni dei quali imponenti, come quello di Manhenha. Affacciandosi sulla sottostante scogliera, tra rocce così accidentate che si fa fatica a rimanere eretti, si ha la prova della confidenza maturata dagli abitanti nei confronti dell’oceano: tra le asperità battute dalle onde si scoprono degli isolani, tra cui alcune donne, intenti a raccogliere tranquillamente i molluschi.

Nell’isola Flores gli spazi pianeggianti sono così limitati che la pista dell’aeroporto è ricavata in mezzo alle case di Santa Cruz, il capoluogo che non supera 1.800 abitanti. Tra gli anni ’60 e’90 del Novecento l’economia dell’isola è stata sostenuta dalla presenza di un centro di telecomunicazioni satellitari francesi, ma oggi, mutate le tecnologie, i tecnici se ne sono andati e il paese è tornato a ritmi di vita d’altri tempi.

Il museo baleniero della “Fabrica do Boqueirᾶo”, costruita negli anni ‘40 e operativa fino al 1981, rappresenta un esempio riuscito di fusione di tecniche museali: con ricostruzione di ambienti debitamente ristrutturati con materiali originali e baleniere provviste di tutte le loro attrezzature. Alcuni manichini, realizzati in scala reale, illustrano quali fossero le sequenze della “spelatura” con la quale si staccava dalle balene lo spesso strato di grasso, mentre modellini e fotografie d’epoca mostrano quanto fosse sanguinosa e pericolosa la loro caccia. Vi sono poi esaurienti didascalie che elencano la lunga lista di prodotti ricavati dai cetacei e il loro utilizzo. Alla conclusione della visita, viene trasmesso persino uno spezzone del film “Pinocchio” di Luigi Comencini, con Nino Manfredi, e di “Moby Dick” di John Huston, con Gregory Peck.

Nell’isola vale la pena di visitare le splendide zone selvagge dell’interno, che ricordano la tundra, e raggiungere Faja Grande, il centro abitato più occidentale di tutta Europa. Il villaggio è sormontato da un’ampia parete di falesia rocciosa, la cui consistenza è nascosta da una folta vegetazione e si distende per qualche centinaio di metri lungo la costa. Dall’alto, precipita il filo d’acqua di una cascatella, che si raccoglie in una piscina rocciosa, detta “Cascata do Poço do Bacalhau”, perché i paesani vi mettevano a rinvenire lo stoccafisso. Qui il mare non trasmette davvero un’impressione di serenità. Le enormi ondate atlantiche si frangono con frastuono sulle appuntite scogliere vulcaniche, generando un cromatismo tutto in bianco e nero: rocce scure sommerse ritmicamente da bianchissime scie di spuma e di spruzzi.

Sᾶo Miguel è l’isola più abitata dell’arcipelago e la città di Ponta Delgada, con i suoi 70.000 abitanti, ha tutto l’aspetto di un vero centro urbano: antichi palazzi, chiese e conventi, oltre a imponenti giardini botanici e, naturalmente, traffico automobilistico. In alcuni angoli della città, come in piazza Portas de Mar, si respira l’aria di una Lisbona in miniatura.

Le attrattive principali dell’isola sono costituite dalle antiche “caldere” vulcaniche che oggi hanno dato luogo a splendidi laghi. Nella zona di Furnas, poi, l’acqua sgorga da sorgenti vulcaniche utilizzate per cure termali. Per quanto riguarda il whaling heritage, l’isola offre porticcioli, come quello di Capelas, nel quale la rampa di discesa a mare è tagliata per centinaia di metri nella roccia, oltre a diverse postazioni di avvistamento. Il governo regionale sta infine discutendo dell’acquisto dell’antica fabbrica baleniera di Sᾶo Vincente, oggi in rovina.

Sao Miguel, porticciolo di Capelas
Sao Miguel, porticciolo di Capelas
LA PRIMA ACCOGLIENZA A CRISTOFORO COLOMBO

L’isola di Santa Maria è il primo lembo di terra europea toccato da Colombo di ritorno dalla scoperta delle Americhe. Il 17 marzo del 1493 la sua Niña, sopravvissuta a una terribile tempesta, calò l’ancora davanti al villaggio di Anjos, dove il suo equipaggio fu coinvolto in un episodio grottesco, così raccontato da Samuel Eliot Morison:

”Informato dell’esistenza di un piccolo santuario, quasi un romitaggio, che si trova vicino al mare, dedicato alla Vergine, Colombo, decise di cogliere l’occasione per scioglier il voto formulato durante la tempesta. All’alba del giorno diciannove spedì a terra metà dell’equipaggio sull’unica lancia della Niña. Gli uomini della Niña, toltisi le scarpe, le calze e ogni altro indumento esterno, entrarono in processione, vestiti della sola camicia (l’abbigliamento che si addice ai penitenti) nella piccola cappella. Mentre recitavano le preghiere di ringraziamento, davanti al trittico in stile fiammingo che ancora oggi adorna l’altare, l’intero villaggio, a cavallo e a piedi, saltò loro addosso e li fece tutti prigionieri: avendo sopra di sé null’altro che la camicia, in che modo avrebbero potuto fare resistenza? Come osserva Washington Irving: tale fu la prima accoglienza che l’Ammiraglio ricevette al suo ritorno dal Nuovo Mondo: un primo assaggio delle prove e delle tribolazioni con le quali sarebbe stato ricompensato, per tutto il resto della sua vita, di uno dei maggiori benefici che mai un uomo avrebbe portato ai suoi simili”

S.E. Morison, Cristoforo Colombo, ammiraglio del mare Oceano, Il Mulino, Bologna, 1962, pag. 341.