I MOSTRI MARINI

L’uomo è un animale “terricolo”. Fu Darwin ad affermare che esso non si avventura sul mare se non spintovi da necessità.

Solo da pochi anni sembra che il rapporto fra uomo e mare sia cambiato, e che l’ammirazione e l’attrazione che esso suscita in noi si siano liberate da quell’oscuro terrore, da quella paura mitica che è legata al mare fin dagli albori della civiltà.

La paura del mare è sepolta nell’inconscio collettivo di tutti gli uomini, i quali, per giustificarla a loro stessi, lo hanno popolato di divinità terribili e feroci. In epoche più recenti, spazzate via le divinità, rimasero i mostri marini la cui esistenza veniva confermata dai racconti dei navigatori e avallata dalla credulità degli uomini di scienza.

Molti di questi mostri sono interamente frutto della fantasia, altri non sono che descrizioni esagerate e tendenti al fantastico di animali allora ignoti, che più tardi furono regolarmente classificati, alcuni, infine, e contrariamente a quanto si crede, non sono affatto leggendari perché esistono autorevoli relazioni e descrizioni della loro presenza fin quasi ai nostri giorni.

Tralasciando le avventure di Ulisse con la mitica Scilla, o quelle di Perseo con la Medusa (che era certamente un mostro marino) e i mostri di ogni mitologia in genere, dobbiamo riprendere un manoscritto etiopico su Alessandro Magno, quello che descrive la sua famosa immersione in una campana.

Il racconto, soffuso di cristiano misticismo, narra che un angelo avrebbe mostrato ad Alessandro le creature sconosciute del mare e i terribili mostri, uno dei quali, dopo aver addentato il barile di vetro in cui era rinchiuso, e dopo essergli sfilato innanzi per due giorni, tanto era lungo, si allontanò senza che il grande condottiero avesse potuto vederne la coda. Poi l’angelo ordinò a un altro mostro di passare alla velocità del lampo. Alessandro dovette attendere tre giorni e tre notti prima di intravederne la coda.

Ma saltiamo anche il Medio Evo, nel quale si parla confusamente di sirene, tritoni e pesci giganti; dobbiamo arrivare al Rinascimento, alle Grandi Scoperte, per avere delle descrizioni ben dettagliate.

Il Pesce Monaco

Lo scienziato Rondelet, autore dell’Universum Piscium Historia, edito nel 1554, parla per la prima volta del pesce-monaco.

Di che cosa si trattava? Riportiamo le sue stesse parole: “Nel nostro secolo, dopo una grande tempesta, è stato catturato in Norvegia un mostro marino che fu da tutti chiamato monaco per il suo viso umano, ma assai rozzo e malgrazioso. La testa era liscia e ben rasata; sulle spalle aveva una specie di cappuccio da monaco; due lunghe pinne al posto delle braccia, e il corpo finiva con una lunga coda”.

Il Pesce Vescovo

Rondelet accenna per la prima volta anche al pesce-vescovo, la cui esistenza era ritenuta certa dai marinai del secolo scorso: “Nel Mar Baltico, lungo le coste della Polonia, fu preso nel 1433 un uomo marino che aveva l’aspetto di un vescovo, con tanto di pastorale e tutti gli altri ornamenti… esso permise a parecchia gente di toccarlo, specialmente ai vescovi, ai quali dimostrò di portar rispetto con i gesti.

Il re voleva farlo rinchiudere in una torre, ma dimostrò di non gradire quest’ultima attenzione, allora i prelati lo riaccompagnarono in mare. Entrato in acqua salutò tutti, e, data la benedizione con un segno di croce, si tuffò in mare e scomparve”.

Non è difficile per noi moderni individuare che cosa fossero questi buoni mostri. Doveva trattarsi certamente di foche sbattute a terra dalla tempesta o indebolite; quanto agli ornamenti vescovili e alla benedizione… Nel Rinascimento scienza, letteratura, fantasia e religione si fondevano armoniosamente tra loro.

Il Kraken, la balena isola ma anche Springhual e Physeter

C’erano anche i mostri cattivi; come la remora, che arrestava i bastimenti facendo perire di fame e di sete gli equipaggi, c’erano i mostruosi Kraken, lunghi un miglio e mezzo, c’erano le balene-isola, sulle quali i marinai sbarcavano erroneamente per accendervi il fuoco e passare la notte. La balena-isola, a questo punto, sentiva il fuoco e per spegnerlo non trovava miglior sistema dell’immersione, trascinando tutto con sé.

Gli stessi seguaci di S. Brandano, che su un curragh irlandese attraversò l’Atlantico prima ancora dei Vichinghi, furono protagonisti di un episodio del genere, dal quale però uscirono indenni, anche se certamente bagnati. I marinai scandinavi raccontavano dei feroci Springhual, che erano soliti assalire le navi ed amavano la carne umana; e dei Physeter, capaci di mettersi ritti sulle onde e di far capovolgere una nave “per grande che sia”.

Questi due mostri dovrebbero essere rispettivamente l’orca e il capodoglio, anche se le loro caratteristiche, in fondo, sono meno terribili di quanto raccontassero i navigatori. Ma i mostri marini per eccellenza, celebrati in tutte le epoche e in ogni letteratura, sono due: il serpente di mare e la piovra gigante.

La storia del primo comincia nelle gelide acque dei fjords norvegesi, ma se ne hanno tracce anche in racconti mitologici di varie civiltà occidentali e orientali, nonché nella Bibbia. Olaus Magnus gli attribuisce 60 metri di lunghezza ed un pessimo carattere: “Va a terra per divorare maiali e vitelli, assale le navi e divora i marinai alle manovre sull’albero… la sua apparizione reca sfortuna e annuncia un cambiamento di regno”. Il pastore Hans Egede, in viaggio per la Groenlandia, nel 1734 ne incontrò uno “la cui testa si ergeva fino alla cima degli alberi della nave, e soffiava come una balena”.

Queste descrizioni impressionavano fortemente l’opinione pubblica, ma gli scienziati ne negavano l’esistenza. Finalmente, nel 1848, l’HMS Daedalus ne avvistò uno e ne diede comunicazione ufficiale. Allora molti marinai che lo avevano visto e avevano taciuto per timore del ridicolo, cominciarono a parlare, e in seguito sembrò che in alto mare non ci fossero che serpenti. Certamente la maggior parte di queste notizie erano false o errate, ma non mancavano avvistamenti da parte di gente seria, navi da guerra, marinai con grande reputazione, colti viaggiatori.

Nel 1905 fu avvistato perfino dal romanziere Kipling, nel Pacifico occidentale, e dal naturalista Nicoll, al largo del Brasile. Tutti i racconti concordavano quanto a forma e a dimensioni, ben diverse, naturalmente, da quelle di Olaus Magnus. Da un’analisi di oltre duecento descrizioni sicure, si traeva la conclusione che non si trattasse di un vero serpente, ma di un animale sconosciuto, probabilmente un mammifero, dato il suo soffio sempre osservato e proprio dei cetacei, e l’abitudine di emergere in calma piatta.

Questo fatto fu confermato autorevolmente durante la prima guerra mondiale dal comandante dell’U-28. Il 30 luglio del 1918 l’U-28 silurò il piroscafo inglese “Hiberian” carico di esplosivo. Era appena scomparso sotto le onde, che il piroscafo esplose scagliando fuori d’acqua numerosi rottami. Tra questi, le sei persone che si trovavano in torretta sull’U-boote, poterono vedere una specie di grande coccodrillo lungo una ventina di metri che si dimenava con violenza. Le sue zampe erano palmate come quelle dei cetacei.

Il serpente di mare continuò ad essere avvistato per molti anni; nel 1956 dei pescatori avvistarono un’immensa testuggine marina e nel 1958, nelle acque di Rio de Janeiro, un peschereccio lo avvistò di nuovo. Da allora tutto tace. Neanche i numerosi solitari con le loro piccole imbarcazioni a vela ne parlano più. Potrebbe trattarsi di una specie sopravvissuta fino ai nostri giorni ed estintasi recentemente, oppure c’è stato “chi l’ha visto” ed ha taciuto per paura del ridicolo? Il serpente di mare resterà certamente a cavallo tra leggenda e realtà.

La Piovra gigante

Quanto alla piovra gigante, la prima fonte storica che ne parla è Plinio il Vecchio. Egli dice che nei pressi di Gibilterra un polpo aveva l’abitudine di devastare i vivai di ostriche ed aragoste dei raffinati patrizi romani del luogo.

I guardiani tentarono invano di sorprenderlo con appostamenti e barricate; il polpo le superava facilmente arrampicandosi sugli alberi. Una notte i cani da guardia lo sorpresero mentre era a terra e lo accerchiarono abbaiando furiosamente.

Egli si difendeva soffiando e scacciando a colpi di tentacoli i cani che volevano azzannarlo. Con sforzi infiniti, tridenti, lance, i guardiani, che credevano di battersi con un mostro, riuscirono infine ad ucciderlo e ne portarono la testa a Lucullo.

Era grossa quanto un barile da 15 anfore, e un uomo riusciva appena ad abbracciare i suoi tentacoli. I testi scientifici attuali dicono che il polpo può raggiungere un diametro di due metri e mezzo. Ma nel 1912, a Tolone, il palombaro Lédu, che recuperava degli oggetti della corazzata “Liberté”, fu aggredito da una piovra, che fu tirata a bordo del battello appoggio, attaccata alla sua vittima svenuta. Pesava 60 Kg e dicono che avesse un diametro di 8 m, e una lunghezza di 4,80.

Un palombaro del Pireo, invece, raccontò di una piovra del diametro di 12 metri, ma nessuno gli credette. A S.Francisco, nel 1912, fu preso un polpo che, misurato, diede queste dimensioni: peso 125 Kg, diametro 9,80 m e lunghezza 4,90.

Misure pressoché identiche furono prese su una piovra catturata nel 1874 a Ilinluk, Unalaska, nel Pacifico. Sulla base di queste misure, il racconto di Plinio diviene quasi verosimile: egli si limita a raddoppiare la misura dell’animale e a triplicarne il peso, ma sappiamo che l’esagerazione, presso gli antichi, era quasi una regola, eppoi chi sa mai…

Il Calamaro gigante che attacca le navi

Le piovre giganti attaccano le navi? Gli antichi dicevano di si, ma già nel XVIII secolo si riteneva impossibile. Forse sarà opportuno precisare che i protagonisti degli spettacolari incidenti di cui stiamo per trattare non erano piovre, ma calamari giganti, una specie praticamente sconosciuta fino al secolo scorso, che in seguito fu classificata “Architeutis”.

Si tratta comunque di molluschi cefalopodi che rassomigliano moltissimo alla piovra, ma risaliamo ai fatti giunti fino a noi. Denys de Monfort (anno 1802) parla dell’attacco di una piovra gigante (leggi: calamaro) a una nave di St. Malo che, dalle coste africane, era diretta ai Caraibi.

Tutti gli uomini si difesero strenuamente con fiocine ed asce, ma il mostro, con il solo suo peso, rischiava di far fare scuffia alla nave; allora i marinai fecero un voto a S. Tommaso. Se S. Tommaso li aiutò non possiamo dirlo, certo è che i marinai riuscirono a recidere tutti i tentacoli del mostro, il cui tronco andò a picco, e la nave si raddrizzò immediatamente.

Lo stesso autore racconta di un altro attacco, avvenuto nelle acque di S. Elena. In piena calma piatta, due marinai verniciavano la fiancata della nave appesi fuori bordo; improvvisamente due mostruosi tentacoli li strapparono via e un terzo cercava di acchiappare sulle sartie un uomo che fuggiva a riva d’albero, e per poco non ci riuscì. L’equipaggio corse alle armi, si lanciarono cime e arpioni, ma dei due malcapitati non si ebbe più notizia, perché il mostro, vista la mala parata, scomparve con la sua preda.

Questi due racconti furono messi molto in dubbio dagli scienziati, ma che dire della goletta “Pearl”, di 150 tonnellate, che nel tardo pomeriggio del 10 maggio 1872, sotto gli occhi di un’altra nave al largo di Ceylon, fu attaccata da un calamaro gigante e trascinata a fondo nel giro di pochi secondi? La nave che aveva assistito alla scena giunse a tutta forza sul luogo del naufragio, dove riuscì a ripescare sei degli otto uomini dell’equipaggio, compreso il comandante che aveva tirato una fucilata sul mostro apparso a breve distanza dalla sua nave, scatenandone l’ira.

Nel marzo del 1941, la nave “Britannia” affondò tra la Guinea e il Brasile. Dodici uomini si trovarono su una zattera così piccola che non poteva contenerli tutti, e a turno stavano in acqua. Una notte uno degli uomini fu strappato via da un calamaro gigante e il ST Cox sentì un tentacolo avvolgerglisi attorno a una gamba, e ne seguì subito dopo una grande sofferenza.

Il calamaro, non si sa perché, lasciò la presa, ma sulla gamba dell’ufficiale mancavano dei brani rotondi di pelle delle dimensioni di una moneta. L’attacco in questo caso è certo, ma l’uomo si trovava in acqua e in condizioni di inferiorità. È stato detto che il calamaro gigante assale piccole imbarcazioni, ma più che di attacchi veri e propri è probabile che si tratti della caduta del tutto fortuita del calamaro, che ogni tanto suole compiere grandi balzi fuori dall’acqua.

Ma il caso più clamoroso è certamente l’attacco di un Architeutis a una petroliera norvegese di 15000 tonnellate, lunga 150 m, che navigava a 12 nodi tra Hawaii e Samoa. Il calamaro si lanciò per ben tre volte sulla nave a una velocità di circa 20 nodi. La terza volta riuscì in qualche modo ad aggrapparsi allo scafo, ma non avendo presa sul metallo liscio, scivolò lentamente verso poppa fino ad essere preso nel risucchio dell’elica che lo fece a pezzi.

Questo fatto è spiegabile con la forma della carena, che ricorda all’Architeutis la forma del capodoglio, suo eterno nemico per ragioni di sopravvivenza, ma bisogna soprattutto osservare che l’animale da preda, specie poco evoluto come il calamaro, percepisce meglio la velocità che le dimensioni, fenomeno ben noto ai pescatori di traina. 12 nodi sono probabilmente la velocità di crociera alla quale nuota in superficie un capodoglio.

Quali dimensioni può raggiungere un Architeutis?

A giudicare dai rari esemplari che è stato possibile misurare, la massima lunghezza risulta 16 metri, ma, se dobbiamo prendere in esame le braccia e le ventose ritrovate negli stomaci dei capodogli, dobbiamo concludere che alcuni di questi cetacei superano i 36 m (esclusi i due tentacoli più lunghi). Infine, se dobbiamo ammettere che le enormi cicatrici sul dorso dei capodogli (del diametro di 45 cm) sono attribuibili all’Architeutis, otteniamo una lunghezza, per il solo corpo, dell’ordine dei 60 m, cioè 150 metri con i tentacoli, ma sempre escludendone i due più lunghi.

Osservando questi dati c’è da rabbrividire, tanto più che sono calcoli effettuati da seri naturalisti, specialisti sull’argomento. E allora i racconti di Plinio, di Olaus Magnus, di Denys de Monfort, che facevano sorridere, meritano un più attento riesame. Forse, se incidenti del genere non avvengono più spesso è solo una questione di probabilit&agrave.